Covid-19 a San Paolo, il Sermig al fianco di poveri e senzatetto

Pubblicato il 31-07-2020

di Redazione Sermig

COVID-19 A SAN PAOLO, IL SERMIG AL FIANCO DI POVERI E SENZATETTO
da articolo Famiglia Cristiana del 31 luglio 2020 di Giulia Cerqueti



COVID-19 A SAN PAOLO, IL SERMIG AL FIANCO DI POVERI E SENZATETTO

Due milioni e mezzo di contagi e oltre 90mila morti. Il bilancio della pandemia del Coronavirus in Brasile è tragico, allarmante. Nel gigante sudamericano l'emergenza continua a essere gravissima, registrando un andamento di crescita di circa 10mila vittime ogni dieci giorni. A San Paolo, la città più colpita, il Sermig di Torino ha fondato la sturttura di accoglienza Arsenale della speranza, in prima linea nell'assistenza ai più poveri e ai senzatetto in tempo di pandemia e misure restrittive. Qui sotto, il servizio pubblicato sul numero 28 di Famiglia Cristiana che racconta l'iniziativa dell'Arsenale durante il lockdown in Brasile, dal 23 marzo al 29 giugno.

Da Santos, principale porto del Brasile e dell’America latina e porta di ingresso di milioni di migranti dal Vecchio mondo, un treno della São Paulo railway company carico di migranti italiani taglia le foreste della Serra do mar, la Catena del mare, per raggiungere l’altopiano di San Paolo. È il 5 giugno del 1887. I giornali paulisti riportano casi di vaiolo tra gli ospiti del fatiscente edificio governativo nel quartiere del Bom Retiro, dove sono diretti i nuovi arrivati. Le autorità sanitarie decidono quindi che per evitare il contagio il treno proseguirà fino al nuovo centro di accoglienza, ancora in costruzione, nel distretto del Brás, sottoprefettura di Mooca. Inizia così la storia dell’Hospedaria dos Imigrantes, l’Ellis Island paulista: attraverso questa struttura da allora fino agli anni ’50 passeranno 2 milioni e mezzo di emigranti di 70 nazionalità.

A raccontare, in una memoria scritta, è padre Simone Bernardi, 44 anni, sacerdote del Sermig (Servizio missionari giovani) di Torino, da quindici anni missionario in Brasile, a San Paolo. Nell’Hospedaria, ricorda padre Simone nella sua testimonianza, gli immigrati venivano visitati e ricevevano i primi vaccini. La storia dell’Hospedaria si intreccia con quella della sanità pubblica brasiliana: allora, ai tempi dei grandi flussi migratori, ma anche oggi (pur in veste rinnovata), in epoca Covid-19. L’Hospedaria chiuse i battenti nel 1978. Grazie al Sermig, la fraternità fondata nel 1964 da Ernesto Olivero, nel 1996 l’antica struttura è rinata come Arsenale della Speranza, un centro di accoglienza per i moradores de rua, il popolo della strada, giovani e adulti senzatetto che sopravvivono di piccoli espedienti racimolando qualche real come catadores, raccoglitori di rifiuti di plastica, metallo, vetro, carta, cartone.

A tutti loro l’Arsenale dà la possibilità di dormire, mangiare, lavarsi, offre un servizio di assistenza spirituale, percorsi di recupero e di autoaiuto e corsi di formazione professionale, come quelli di panetteria e di pasticceria, e nel settore edilizio per diventare muratore. «A operare qui siamo quattro missionari del Sermig provenienti dall’Italia», spiega padre Simone. «La storia dell’Hospedaria è strettamente legata a quella della migrazione italiana: qui arrivarono un milione di connazionali». Oggi si parla di circa 5 milioni di oriundi italiani. E non a caso la struttura sorge nella sottoprefettura di Mooca, nome indigeno ma anima italiana, perché il quartiere venne costruito dai lavoratori provenienti dal nostro Paese, una sorta di Little Italy paulista.

Le persone accolte sono tutti uomini: a San Paolo l’80% dei senzatetto – circa 30 mila in tutta la metropoli – sono maschi. A oggi, all’Arsenale della Speranza sono state ospitate oltre 63 mila persone, 1.200 al giorno. Quotidianamente passano per la struttura 250 persone per seguire corsi e gruppi di aiuto. Quando è scoppiata l’epidemia del coronavirus in Brasile, i missionari ed educatori del Sermig si sono resi conto che per i loro ospiti sarebbe stato impossibile rispettare le precauzioni sanitarie. A quel punto, per continuare le loro attività in sicurezza, hanno preso una decisione: trasformare l’Arsenale della Speranza in un luogo di quarantena, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

«Il 23 marzo 2020, a mano a mano che la fila dei 1.200 ospiti entrava, assistenti sociali ed educatori dicevano loro: "Per cercare di proteggerci dal contagio, a partire da oggi chi entra vi rimane a tempo indeterminato". Oltre mille persone hanno deciso di restare, accettando di abitare in una dimora fissa. Una dimensione nuova per moltissimi di loro. Quando è cominciato il lockdown gli eventi pubblici sono stati annullati, locali e ristoranti sono stati chiusi, tanti hanno capito che là fuori non ci sarebbe stato più nulla per loro, nessuna speranza di sopravvivere.

Come Gustavo, un brasiliano sulla sessantina: faceva il catador, raccoglieva lattine fuori dai locali e dalle feste. Quando si è reso conto che questa piccola fonte di entrata gli sarebbe venuta a mancare ha deciso di restare da noi, dove avrebbe avuto almeno da mangiare e da dormire assicurati». Per molti è stato un tempo di riflessione, «perché per migliaia di persone l’idea dell’abitare sulla strada è tutt’altro che un fatto banale». E poi la quarantena ha permesso di ricreare relazioni, stringere amicizie, ritrovare una socialità, un senso di comunità, uscendo dalla condizione di solitudine della vita sulla strada. «Abbiamo passato le giornate organizzando molte attività, dai tornei di scacchi alle partite di calcio agli eventi musicali e artistici. Qui dentro abbiamo una biblioteca e tanti ospiti hanno ripreso a leggere, scrivere, disegnare. Si sono ricostruiti una dimensione di vita».

Per molti la quarantena è stata un’opportunità di rinascita. Come per Roberto, che ha circa 40 anni e arriva dall’Uruguay. Dipendente da droga e alcol, quando è scoppiata la pandemia era appena arrivato all’Arsenale. «Ha scelto di restare dentro, consapevole del fatto che questa decisione gli avrebbe imposto di seguire una serie di regole, una disciplina. Per lui è stata la spinta per combattere il suo personale nemico, la dipendenza. Oggi afferma orgoglioso di essere pulito da tre mesi. In una sua testimonianza aperta Roberto ha detto: “Ho trovato la forza per ridare chiarezza alla mia vita”. Questa esperienza gli ha permesso di fare i conti con i suoi problemi».

Novantasei giorni di quarantena: l’Arsenale ha riaperto le sue porte il 29 giugno. Nonostante la situazione critica, le misure restrittive nello Stato e nella città di San Paolo sono state allentate. «Ora i nostri ospiti sono liberi di uscire. E la preoccupazione adesso è non far entrare qui dentro il virus. Pur non potendo assicurare il distanziamento, in tre mesi abbiamo seguito tutte le precauzioni igienico-sanitarie, la struttura è stata igienizzata e non abbiamo avuto nessun contagio».

Il Brasile è il secondo Paese al mondo per numero di casi di coronavirus, dopo gli Stati Uniti. Nello Stato di San Paolo è una catastrofe: gli ospedali sono al collasso, nei cimiteri non c’è più spazio per i morti. E la crisi sanitaria sembra ancora lontana dal picco. «In Brasile la pandemia è una tragedia vissuta in modo molto diverso dall’Italia e dall’Europa», osserva padre Simone. «ll valore della vita è differente, perché in questo Paese il Covid-19 è un problema in mezzo a un mare di altri problemi enormi. La sfida, adesso, è far capire alle persone che, nonostante la riapertura, la pandemia non è finita».

Giulia Cerqueti

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