La voce e il tempo: Il Sermig compie 60 anni
Pubblicato il 13-12-2024
Intervista – Il fondatore del Sermig Ernesto Olivero ripercorre i passi che portarono al sogno, che continua, dell’Arsenale della Pace.
Martedì 10 dicembre il cardinale Arcivescovo Repole ha presieduto la Messa nell’anniversario.
di Gian Mario Ricciardi - 12 Dicembre 2024
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Quando dal Sud vennero a Torino, era così piccolo che lo misero nel «posto delle valigie».
Lui che, come dice la mamma nell’ultimo bel libro «Farà altro nella vita» (Le radici di un sogno, Priuli e Verlucca editori), la valigia l’ha presa in mano per aprire gli Arsenali: a San Paolo del Brasile, Amman in Giordania, Torino, Pecetto.
Lo incontro nella penombra della sua piccola stanza della Fraternità mentre il cardinale Roberto Repole arriva in piazzetta Borgo Dora per i 60 anni del Sermig.
Un sogno lungo 60 anni.
Sì, ma siamo solo all’inizio. Noi dobbiamo fare i conti con l’eternità e con l’umanità tutta intera perché ogni uomo e donna abbia le stesse possibilità. Non è demagogia, ma un semplice sogno di giustizia. Ieri come oggi.
Avresti immaginato tutto quello che è avvenuto?
Proprio no. Anzi, se lo avessi immaginato forse mi sarei spaventato. Di certo, sentivo nel cuore di essere accompagnato. Davanti avevamo una sproporzione, ma presto abbiamo capito che proprio quello è il campo di Dio, la sua logica.
Cosa ricordi dei tuoi primi passi?
Ricordo che già da piccolo le ingiustizie mi facevano soffrire. Per me era inconcepibile l’idea che ci fossero dei bambini che non avevano da mangiare, che non potevano andare a scuola, che non potevano curarsi. In fondo, il mio cammino e la mia lotta sono iniziati in quel momento. Ho cercato di non perdere mai quello sguardo, di rimanere bambino, perché i bambini sono freschi, nuovi ogni volta, non posseggono nulla, ma credono tutto.
L’Arsenale, che fatica…
Sì, ma anche che meraviglia! L’Arsenale arrivò dopo quattro anni di preghiera incessante e di richieste continue al sindaco di allora. Ogni giorno abbiamo circondato letteralmente quei ruderi di preghiera per chiedere al Signore che ci desse un segno e che ci venisse assegnato. Così avvenne. Il 2 agosto 1983 entrammo con un piccolo gruppo. Servivano miliardi per rimettere tutto a posto, ma non ci siamo spaventati. Ogni giorno facevamo il pezzo che era alla nostra portata. Qualcuno è rimasto, altri sono andati via perché la sproporzione era troppa, ma lentamente e decisamente un luogo di morte è diventato casa di vita e di pace. Siamo entrati così, quasi senza saperlo, nella profezia di Isaia.
Sempre con gli ultimi, sempre con i «grandi» per aiutarli: quante filettate…
Da sempre abbiamo lavorato con gli ultimi e in mezzo agli ultimi, ma mai contro qualcuno. Ho sempre creduto che si può stare dalla parte dei poveri senza odiare i ricchi e i potenti, ma al contrario cercando di coinvolgerli. C’era e c’è troppo bisogno di persone capaci di portare speranza, per perdere tempo nella critica sterile. Se Dio è Padre, dobbiamo aiutarci gli uni gli altri a vivere concretamente da fratelli. Anche i grandi hanno un’anima. Ho sempre pensato che far toccare con mano il bene poteva incoraggiarli ad alimentarlo nell’esercizio della loro responsabilità.
Ricordo quel palco, nel primo cortile dell’Arsenale della Pace, con te, Pertini, Scalfaro ed un lavoro immenso da pagare. Quanti volontari; quante persone perbene; quanto amore; quanta fede…
Quando cammino negli spazi dell’Arsenale è come se vedessi i volti di milioni di giovani e adulti che ci hanno aiutato. Senza la restituzione del loro tempo, delle loro risorse, della loro professionalità, l’Arsenale non esisterebbe. Anche io ricordo Sandro Pertini, uno dei primi a farsi coinvolgere nella nostra storia, pur avendo una cultura diversa dalla nostra. Andai da lui quando l’Arsenale era ancora solo un desiderio ed uscii con la promessa che sarebbe venuto lui stesso ad inaugurarlo. Così avvenne l’11 aprile del 1984 insieme a Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca Ministro dell’Interno, e a migliaia di giovani. Fu una giornata memorabile. Dopo qualche giorno, il Presidente mi inviò una lettera scritta di suo pugno: «Caro Olivero, l’incontro a Torino l’11 aprile scorso con i tuoi giovani del Sermig è stato un momento esaltante. Mi ha dato conforto e speranza e ha rafforzato la mia fiducia nella gioventù italiana, nella sua capacità di lottare per la pace, per la libertà e per i più alti ideali umani. Nei loro volti sereni, nei loro canti gioiosi ho visto l’Italia dell’avvenire».
È un percorso lungo: le occhiate più invitanti, segni di fede, anche nei momenti più difficili.
Sì, però oggi dico che è stato giusto anche così. Le critiche non ci hanno fatto montare la testa. In alcuni passaggi abbiamo sofferto, ma tutto è stato una grazia per approfondire le nostre motivazioni, correggerci, interrogarci in modo autentico. Non è mai mancata comunque la Provvidenza, strade che si aprivano all’improvviso, gesti di generosità commoventi, soprattutto la vita semplice di tante persone che sono cambiate, ci hanno aiutato, hanno scoperto un senso.
Hai fatto questo tragitto con tua moglie Maria, i tuoi figli, tanti amici, ma alcuni particolari. Li ricordi?
I volti di ognuno sono impressi nella mia memoria. Il Sermig per me e Maria è stato come un quarto figlio. Siamo cresciuti insieme anche come coppia. Mia moglie è stata decisiva. Un giorno mi disse: «Ernesto, non ci capisco niente ma ti vedo sereno e mi fido». Ho avuto il dono di incontrare una donna meravigliosa, senza di lei nulla sarebbe stato possibile. Ci siamo sposati e amati per sempre. Abbiamo avuto tre figli: Lidia, Sandro e Andrea, che a loro volta ci hanno regalato 9 nipoti. I nostri figli ognuno con il suo passo ha scelto di entrare nell’avventura del Sermig. Questo per noi è stato un dono inimmaginabile. Abbiamo creato una famiglia meravigliosa e con questa famiglia, uniti, camminiamo verso il cielo.
Sei passato attraverso i cambiamenti dell’Italia; hai accolto i potenti di turno (da Andreotti a D’Alema) affrontando tutti i problemi, i distinguo e le critiche oltre ai tantissimi consensi. Qual è il segreto oltre alla Bibbia che hai sempre in mano?
Il segreto per me è stato non sentirmi mai estraneo nella storia, ma viverla dando il mio contributo. La storia passa ogni giorno per le nostre mani, la scriviamo noi con le nostre scelte, il nostro cuore, i nostri ideali e valori. È sbagliato pensare di essere troppo piccoli o irrilevanti per contribuire a cambiare le cose. Un altro segreto è la preghiera intima che mi abita e che non ho bisogno di esternare. È la Presenza di Dio che mi fa compagnia in ogni momento e che mi aiuta a vedere negli altri, piccoli o grandi, persone da imparare ad amare come fratelli.
Il Signore ti ha provato anche personalmente. Non ti sei mai arrabbiato con lui?
Di prove e di dolori ne ho attraversati tanti, come ognuno del resto. Non ho mai attribuito a Dio le sofferenze che mi sono arrivate, ma piuttosto le ho vissute con Lui. Ho pianto tante volte con Lui, ma mai lacrime di disperazione. Quando la mia Maria si è ammalata, il mio pianto per un momento è stato inconsolabile, ma poi insieme ci siamo rialzati e insieme abbiamo vissuto fino in fondo il dolore che ci stava prendendo. Dio non ci ha mai lasciati, ci ha sempre tenuti stretti a sé.
Dei tuoi primi sessant’anni, cosa ti resta dentro, oltre la fede?
La voglia di cambiare il mondo, di renderlo più umano, più fraterno. Sto cercando con tutte le mie forze di fare tutto quello che posso ma resta ancora tanto da fare. E oltre a questo, ho un desiderio e una speranza: che la Chiesa rassomigli sempre più a Gesù. Quello che ci viene chiesto oggi è essere semplicemente cristiani. Il resto verrà.
di Gian Mario Ricciardi