Una partita a forza 4

Pubblicato il 17-02-2014

di Paolo Miotti

Nel centro di Torino c'è un rifugio speciale: basta poco per riscoprire la fiducia.
Quattro signori italiani attorno ad un tavolo, con un bicchiere di the caldo in mano, e nell’altra le carte da scopa. Più in là due signori rumeni incollati sulla sedia da ore alla ricerca di uno scacco matto vincente. Vicino alla libreria un anziano immerso nella lettura di un giallo, mentre al tavolo vicino due signore conversano del più e del meno. Nell’altra stanza tre uomini di mezza età, di provenienza diversa, scrivono mail e mandano il proprio curriculum, nella speranza di una risposta che forse non arriverà mai.
No, non siamo in un bar, in un internet point, né tantomeno in una biblioteca o in circolo. È la scena che ti troverai davanti se un giorno verrai ad trovarci per avere un momento di sosta nella casa di Gabriele.
È una casa, un luogo pronto ad accogliere chi una casa non ce l’ha. Un luogo senza grandi pretese e grandi obiettivi, in apparenza, se non quello di regalare alcune ore di quiete, di riposo, di svago a chi da anni si trascina in una vita di strada, una vita dura, una vita a volte rassegnata, a volte accettata, comunque una vita impastata di sofferenze e di dolore.

Puoi incontrare l’imprenditore che fino a qualche mese prima viveva una vita normale, prima del fallimento e dei debiti; oppure una signora rimasta vedova dieci anni fa e “da quel giorno, tutto non ha più avuto un senso”; oppure puoi imbatterti in un giovane rumeno arrivato in Italia nella speranza di un lavoro e ritrovatosi poi solo, lontano mille miglia da casa, dalla famiglia e forse anche da un vero amico.
Ma forse non conta tanto chi incontrerai, chi ti troverai di fronte, non conta chiedersi: chissà quale storia c’è dietro!. Conta esserci, per lui, conta esser lì per stringergli la mano e dargli il benvenuto. Conta essere lì per fare il quarto a scopa, conta non voler giudicare il passato e il presente dell’altro.
Non pretendiamo di cambiare la vita in un incontro, le cose di cui hanno bisogno quelli che incontriamo nella Casa di Gabriele sono cose grandi: un lavoro, una casa, un senso per la propria vita. Ma in un periodo in cui queste grandi-piccole certezze sono crollate per molti, in un’ epoca in cui solo le cose sembrano avere e dare un senso, forse anche una banalissima partita a scacchi o un torneo di scala 40 possono aiutare a ricominciare, a sentire un po’ di fiducia attorno.

Vogliamo semplicemente rimettere al centro la persona, chiunque essa sia, e qualunque possa essere il suo passato. Ognuno di noi ha il diritto di ripartire, di non sentirsi giudicato e condannato per sempre, ha il diritto ad un po’ di speranza e forse, oggi come non mai, l’unico modo per raggiungere questo è di condividere ciò di cui ognuno di noi sembra non averne mai abbastanza: il proprio tempo. Così tra un partita a battaglia navale e a forza 4, una visita gratuita al museo e un bel film, il pomeriggio passa e arrivano le 18.30. Giuseppe si dirige verso il dormitorio che almeno per un mese sarà la sua casa; Sharif il periodo di permanenza l’ha appena concluso ed ora trascorre le sue notti nel pronto soccorso di un ospedale; Peter da 10 anni è irregolare e andrà a cercare un posto da qualche parte.
I pensieri e le preoccupazioni non sono spariti, come accade nei film, ma sai di poter ritornare in un luogo amico in cui per un paio d’ore non sei l’ immigrato irregolare, l’imprenditore fallito, l’ex tossico, ma semplicemente un uomo e una donna, come gli altri.

Paolo Miotti

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