(In)differenti
Pubblicato il 17-09-2024
Il grado di civiltà di un popolo si giudica dalla sua capacità di fare i conti con la diversità. Il diverso accolto, compreso, mai giudicato. Il diverso rispettato, amato, integrato. Impegno sacrosanto in un’epoca in cui la paura mette radici, la complessità spaventa, l’odio si accende per poco, l’incomunicabilità regna sovrana. Ma siamo sicuri che sia questa la via di uscita? Che la risposta sia riscoprirsi semplicemente diversi? Non è che senza volerlo siamo finiti dentro un gigantesco luogo comune?
E se invece di diversità, cominciassimo a parlare di differenze? La sfumatura è sottile, ma contiene un mondo di significato. La parola “diversità” deriva dai verbi latini divertere e devertere, composti da vertere (volgere) e dis (altrove). Insomma, volgere da un’altra parte, ovvero allontanarsi, deviare, cambiare direzione. La parola “differenza” invece discende dal greco antico διαφορά (diafora) e dal latino differentia. Origine comune dal verbo diafero che significa portare qualcosa in varie direzioni, ma anche verso qualcuno.
È tutta qui la bellezza e la potenza delle differenze. La diversità implica un allontanamento, un cammino su strade distinte, una distanza che può essere orizzontale, ma anche verticale. Per esempio, la distanza tipica di chi guarda dall’alto in basso, magari giudicando e sentendosi migliore. La differenza segue un’altra logica. Portare qualcosa a qualcuno non implica automaticamente ascolto e accoglienza perché dall’altra parte potrebbero esserci muri e ottusità. Ma il movimento del “portare” presuppone un avvicinamento e in potenza la scelta di una condivisione. Se mi avvicino e l’altro lo accetta, non esiste distanza, non esiste paternalismo, non esiste sbilanciamento. Esistono semplicemente due storie allo specchio.
Dove la diversità incasella, la differenza accolta può generare occasioni inimmaginabili di dialogo, di confronto, in definitiva di arricchimento. Anche perché tutti siamo portatori di differenze: differenti nei vissuti, nelle origini, nelle storie famigliari, nei caratteri, nelle modalità di amare, nelle consapevolezze maturate e nei dubbi, nelle gioie e nelle ferite, nelle profondità e negli abissi.
Felice sarà quel popolo, quella società, quelle comunità capaci di alimentare questo sguardo. Di cogliere la verità che passa da ognuno. Di vedere il senso disperso in briciole in modo che tutti possano farne parte. Di non avere paura di nulla, nemmeno di ciò che sul momento non si capisce. Perché è giusto così e perché non c’è nulla di male a essere differenti. Il problema, l’unico problema, semmai è diventare indifferenti.
Matteo Spicuglia
NP giugno/luglio 2024