Avventure dell'Arsenale

Pubblicato il 29-07-2020

di Ernesto Olivero

Uno dei rimpianti più grossi che ho nella costruzione dell’Arsenale è di non aver annotato, giorno per giorno, tutti i fatti che sono accaduti. Qualcuno è rimasto però stampato nella mia mente, tanto da essere ormai indimenticabile. Quando abbiamo iniziato la costruzione non sapevamo a cosa andavamo incontro. Il Signore ci aveva corazzati con la santa incoscienza, per cui ci faceva vedere solo un pezzo alla volta e non ci permetteva di scoraggiarci. Invece i nostri amici ingegneri, geometri, architetti, sapevano bene cosa voleva dire un’impresa come quella e si spaventarono più di tutti noi. Per un lungo periodo, scomparvero addirittura. Molto più tardi, ci confidarono di aver pensato che l’Arsenale sarebbe diventato la tomba del Sermig, tanta era la sproporzione tra le opere necessarie e le nostre forze reali. In effetti, occorsero sei anni di lavoro, qualcosa come 500 mila ore, una spesa che si aggira attorno ai sei miliardi … L’avessimo saputo prima, saremmo morti di spavento! La Provvidenza guidò ogni giorno di lavoro, ogni decisione difficile, ogni necessità. Un giorno passavo nell’attuale salone della pace, e osservando tutte le finestre e le porte, mi accorsi che mancavano i vetri, un centinaio in tutto. Annotai sulla lavagna: cercare vetri. Il giorno dopo, iniziai a cercare. Pensai subito di telefonare all’ingegnere che ci stava aiutando, Gabriele Manfredi. Gli telefonai, gli parlai di alcune cose e mentre gli parlavo, non mi sentii di chiedergli dei vetri. Decisi di andare dietro a questa mia intuizione. Chiusi la telefonata con un certo imbarazzo (si sentiva che era una telefonata un po’ monca). «Che strano, gli telefono per chiedergli i vetri e poi decido di non chiederglieli…». Dopo pochi minuti suona il campanello. Vado io stesso ad aprire. Si presentano due donne bellissime, bionde, sembravano de sorelle, invece erano mamma e figlia. Sono loro ad accogliermi: «Ah, è proprio lei che ci apre. Desideravamo proprio parlarle». Dissi: «Guardate, ho un momento di tempo». Volevano darmi dei soldi per qualche solidarietà. Io propongo una realizzazione per i bambini abbandonati. Si stupiscono che, trovandoci a parlare in un rudere quale era l’Arsenale, io chiedessi soldi per una iniziativa di solidarietà in Brasile anziché per la ristrutturazione. Ribadisco che i soldi offerti per i poveri vanno inderogabilmente ai poveri e non per l’Arsenale. I mattoni dell’Arsenale devono arrivare in modo diverso. Ad un certo punto mi guardano in faccia e mi dicono: «Ma lei ha bisogno di vetri?». E io: «L’aspettavo da ieri!». E i vetri sono arrivati.

 

Un giorno mi telefona don Toni, un mio amico sacerdote di Alba, e mi dice: «Ernesto, se ci fai trovare i mattoni, noi sabato e domenica veniamo con dieci muratori e tiriamo su tutti i muri che vuoi». Io non avevo un solo mattone, ma dissi: «I mattoni li ho: venite pure!».

Avevamo bisogno di 50.000 mattoni! Una delle prime cose che ho insegnato ai miei giovani è di eliminare dal nostro vocabolario la parola: comprare! Non è per avarizia o per non dare la giusta mercede … Il motivo è che tutto ciò che si risparmia diventa restituzione per i più poveri; in secondo luogo, c’è molta gente generosa che non aspetta altro che dare qualcosa di concreto. Al martedì sera lancio un appello nella preghiera: «Amici miei, abbiamo bisogno di 50.000 mattoni. Qualcuno di voi ci può aiutare?». Durante la notte, sogno mattoni dappertutto. Quando mi sveglio, decido che alle prime cinque persone incontrate, avrei chiesto mattoni. «Guardi, avrei bisogno di 10.000 mattoni. Se può farmeli avere in Piazza Borgo Dora 61…». Nel giro di poche ore sono arrivati 50.000 mattoni. Solo che 50.000 mattoni, messi uno vicino all’altro, sono un’immensità; occupavano quasi tutto lo spazio del cortile. Mentre pensavo come spostarli senza far perdere tempo ai muratori, mi telefona un mio amico parroco: «Ernesto, vorrei chiederti un piacere: ho centoventi ragazzi del catechismo, non so cosa fargli fare. Se li porto all’Arsenale alcune ore, tu gli procuri un lavoro?». Penso subito ai mattoni e dico: «Ci sono 50.000 mattoni che li aspettano!».

Un sabato ed una domenica: 10 muratori, 120 ragazzi, 50 mila mattoni e i muri dell’Arsenale che crescono rapidamente, sotto gli occhi increduli della gente di Porta Palazzo.

 

Un giorno mi telefona Luciano, un amico falegname: «So che state facendo il soffitto della chiesa, so che state mettendo delle “assette”, so che le inchiodate ad una ad una. Io potrei venire una giornata a lavorare con voi. Ho una pistola automatica e in molto meno tempo potremmo concludere tutto, ma mi occorrono almeno 100 metri quadrati di assette. Era un sabato mattina e c’erano tantissimi ragazzi all’Arsenale. Chiedo ad una decina di loro di attivarsi e di cercare in giro per l’Arsenale tutto ciò che potesse assomigliare ad assette. Alla fine della giornata avevamo trovato quasi niente. E io tutto contento dico: «Bene, sono contento, perché so chi ci avete lavorato, ci avete creduto e quando ce la si mette tutta, non conta il risultato! Si vede che doveva andare così. Ci sarà qualcosa che non capiamo». Non finisco di parlare, di dare questa consolazione ai miei amici tristi, che suona un signore con un camion, mi chiama: «Signor Ernesto, passavo di qui: ho cento metri di assette, le servono?». Dissi soltanto: «In fondo a sinistra!».

 

da Progetto, marzo 1993

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