AFRICA NERA: EDUCARE O MORIRE

Pubblicato il 19-08-2011

di Gianni Giletti

Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi (Redemptoris Missio, n. 58)

di Piero Gheddo

 

merlino.jpgDal 1960, quando la Fao lanciò la “Campagna mondiale contro la fame”, si programmano piani e aiuti per sconfiggere questa tragedia, che oggi colpisce ancora più d’un miliardo di esseri umani. Negli anni 60-70, la fame riguardava i popoli di Cina, India, Indonesia e altri, non ancora l’Africa nera. A partire dagli anni 70-80, i paesi asiatici crescono anche nella produttività agricola, ma oggi l’emergenza per la fame è nell’Africa nera, che nel 1960 aveva 210 milioni di abitanti ed esportava cibo, oggi ne ha 700 milioni ed importa (secondo la Fao) circa il 30% del cibo base che consuma (riso, grano, mais). L’agricoltura tradizionale africana produce troppo poco. A Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’Africa nera solo 5. Le vacche lattifere della pianura padana producono 30 litri di latte al giorno, le molte vacche africane non producono latte, eccetto 1-2 litri quando hanno il vitellino.

Eppure, quando si scrive e si discute di aiuti ai popoli poveri, si prende solo e sempre in esame il fattore macro-economico: finanziamenti, prezzi materie prime e dei generi alimentari, commerci, debito estero, ecc. Tutto questo è importante, ma l’esperienza di chi opera sul posto è che il denaro non basta e, se non c’è un popolo preparato ad usarlo bene, crea corruzione e debito estero; la remissione del debito è sacrosanta, ma se nel frattempo il popolo non cresce nell’educazione e nella libertà, fra dieci anni la situazione sarà la stessa.

L’Occidente ricco non ha ancora capito che lo sviluppo di un popolo parte dall’interno di quel popolo. Libertà, stabilità politica e istruzione sono le priorità che permettono ad un paese povero di svilupparsi.


L’ESPERIENZA DELL’EUROPA

Dal 1947 al 1952 gli Stati Uniti misero a disposizione dell’Europa occidentale un prestito a tasso zero di 17 miliardi di dollari. In meno di dieci anni i paesi europei erano in piedi e hanno iniziato il loro boom economico. Ma un centro studi internazionale inglese ha calcolato che gli aiuti economici all’Africa nera dal 1980 ad oggi sono stati dai 200 ai 230 miliardi di dollari e non hanno prodotto frutti positivi.

Quale differenza? In Europa c’era un popolo istruito e preparato al lavoro moderno, in Africa ci sono popoli che, prima dell’incontro con la colonizzazione europea all’inizio del Novecento, vivevano nella preistoria, cioè non avevano lingue scritte. In un secolo non è possibile fare il balzo culturale dalla preistoria al computer! Ecco perché l’educazione è la prima emergenza per lo sviluppo africano.


I VERI PROBLEMI

Questa verità è ignorata in articoli, studi e convegni internazionali. Infatti, si continua a discutere di commerci, aiuti economici allo sviluppo e sfruttamenti delle ricchezze africane, trascurando le cause interne della povertà africana: corruzione, instabilità politica, analfabetismo, guerriglie etniche. Mezzo secolo dopo l’indipendenza africana (1960), il grande storico del Burkina Faso, Joseph Ki-Zerbo, ha scritto che il periodo dal 1960 al 1975 è stato per l’educazione “euforico e illusorio”, idealista e inconcludente, e quello dal 1980 al 1990, nonostante alcuni progressi locali e tentativi coraggiosi, ha portato a risultati inquietanti tanto che la “Commissione economica per l’Africa” dichiarava che “l’Africa rischia di avere una percentuale di analfabeti e di mano d’opera non qualificata più elevata che negli anni sessanta” (Eduquer ou périr, Unesco-Unicef, L’Harmattan, Paris 1990, pagg. 24-25).

Non è possibile che nel mondo attuale si sviluppi un continente come l’Africa nera che ha ancora circa il 50% di analfabeti e molti di quelli registrati come “alfabetizzati” non sanno più né leggere né scrivere. Eppure dell’“emergenza istruzione” in Africa non si parla mai. Ricordo che al G8 di Genova (luglio 2001) le decine di migliaia di No Global protestavano per gli scarsi aiuti economici ai paesi africani, ma forse non sapevano nemmeno che metà dei bambini africani non vanno a scuola. È “politicamente corretto” protestare contro gli Stati Uniti e i governi europei, ma non contro quelli africani, corrotti e inetti, che continuano a privilegiare le città e le élites politiche e militari, mentre trascurano le popolazioni delle regioni rurali.

ISTITUZIONI FORTI

L’11 luglio 2009 Barack Obama ha visitato il Ghana e al Parlamento di Accra ha detto: “Mio nonno faceva il cuoco per gli inglesi in Kenya, mio padre pascolava le capre in un minuscolo villaggio… È facile addossare ad altri la colpa della povertà africana. L'Occidente non è responsabile della distruzione dello Zimbabwe, della Somalia e del Darfur, né delle guerre in cui vengono arruolati bambini tra i combattenti”. Parole fortissime quelle di Obama, che ha aggiunto: “Nessun Paese riuscirà a creare ricchezza se i suoi leader sfruttano l'economia per arricchirsi, o se la polizia può essere comprata. Questa non è democrazia, ma tirannia ed è tempo che finisca. L'Africa non ha bisogno di uomini forti, ha bisogno di istituzioni forti. Il futuro dell’Africa è in mano a voi africani, soprattutto dei vostri giovani”.

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VITE CERCASI

Cosa possiamo fare noi, popoli ricchi? La fame in Africa è una tragedia che richiede una mobilitazione di popoli, non basta mandare soldi e macchine, ci vogliono uomini e donne che diano propria vita o parte della vita per condividere con i fratelli africani un cammino di crescita anche in campo agricolo. Come fanno i missionari e i volontari laici (le Ong). Da mezzo secolo visito i missionari nell’Africa profonda e vedo che i poli di sviluppo creati dalla missione sono tanti e dimostrano che dove un popolo è educato e accompagnato, si sviluppa. Nel 1985 in Burkina Faso, nell’anno della grande siccità del Sahel, andando verso il Nord desertico c’erano solo villaggi abbandonati, campagne aride, gente che scappava verso i campi profughi dell’Onu. Poi, ecco una regione in cui tutto è verde, terreni coltivati, laghetti e canali, villaggi pieni di vita. Le due fattorie-scuola dei Fratelli della Sacra Famiglia di Chieri (Torino) di Nanorò e Gundì hanno educato i villaggi a trattenere l’acqua, costruire sbarramenti contro la sabbia del deserto, concimare i campi, ecc.

Perché non si dice mai che i soggetti educativi del nostro paese (famiglie, scuole, partiti, sindacati, mass media, Chiesa), debbono dare ai giovani l’ideale di spendere qualche anno o tutta la vita per i fratelli africani? Troppo comodo protestare contro governi, banche e multinazionali, e pensare di avere la coscienza a posto. Non si tratta solo di costruire scuole: chi va ad insegnare nelle campagne (questo vale anche per gli operatori sanitari)? Perché noi popoli ricchi non ci responsabilizziamo di questa drammatica situazione? Perché il governo non offre ai giovani un servizio volontario di due-tre anni nei paesi più poveri, per dare una mano nella scuola, nella sanità, nell’educazione nell’agricoltura moderna, nelle scuole per le donne? Perché non ci sono studi, dibattiti, presa di coscienza dei giovani sulla diminuzione delle vocazioni missionarie e nelle Ong di volontariato internazionale, che penalizza fortemente i popoli poveri?

 

Piero Gheddo
missionario PIME
da Nuovo Progetto, dicembre 2009

* Foto di Tamara Merlino

 

 

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