Non ho una lira

Pubblicato il 24-01-2013

di Flaminia Morandi

Colpa della globalizzazione, dell'ubriacatura da new economy, dell'euro, della guerra? Chissà. Fatto sta che è una frase ricorrente nelle conversazioni, vecchia come il mondo e spesso bugiarda, che nasconde una povertà non vera.

Il povero vero, ptokòs come dicevano i greci, chi è privo di tutto e subisce una povertà non scelta, difficilmente la pronuncia in questi termini.
Non la dice neppure il povero volontario, chi ha voluto farsi povero perché riconosce alla povertà una funzione fondamentale nel suo rapporto con Dio.

C'è un tasto interiore su cui siamo fragilissimi, il nostro passato; anche se misero, nella memoria diventa mitico; e il diavolo lo sa. Nel deserto, anche il cibo degli schiavi, la pentola di carne e le cipolle d'Egitto, sembra delizioso e desiderabile. La povertà volontaria del monaco è il segno della sua volontà di bruciarsi i ponti alle spalle, di rendere impossibile il ritorno nel mondo e di proteggersi da questa tentazione: se oltre ai pensieri e alla memoria del passato, il monaco è disturbato anche dalla gestione di una ricchezza, è assai probabile che torni indietro. La nudità assoluta, segno di assoluta fiducia in Dio, toglie invece ogni appiglio al tentatore.

Ma questa nudità assoluta non è per tutti. La povertà assoluta era un obbligo solo per i cenobiti, i monaci che vivevano in comunità. In questo caso il monastero può essere ricco; il singolo monaco no. Nella comunità di Pacomio tutti sono allo stesso livello: nessuno può prendere niente di ciò che è comune, può ricevere un dono senza portarlo al superiore, può tenere qualcosa nella sua cella senza permesso. La regola indica a tutti lo stesso modo di concepire la povertà.

Per gli altri, i solitari, non era così. Abba Arsenio non s'era affatto liberato da tutte le sue ricchezze andando a vivere nel deserto; ma veniva molto lodato dagli altri monaci per la sua scelta di povertà perché, relativamente alla sua storia, la sua era una scelta radicale: era stato senatore e aveva fatto parte della corte imperiale.
Paola, una delle donne più ricche di Roma, grande amica di san Girolamo, ci mise anni per liberarsi del suo immenso patrimonio e per collocarlo con saggezza. Quando poi realizzò il sogno di andare a ritirarsi nel deserto, con tutto che si era spogliata degli averi, arrivò col seguito come una regina. Molti monaci accettavano tranquillamente l'eredità; altri la aborrivano. Molti avevano fatto rinunce incomplete e trattenevano un po' di denaro per gli stessi motivi che un monaco moderno potrebbe addurre oggi: la paura della vecchiaia e delle malattie.

La maggior parte lavoravano e vivevano del lavoro delle proprie mani; ma molti mendicavano. Altri l'elemosina la facevano, ma non a tutti: Kolobos si rifiutava di dare ai poveri una parte di quello che guadagnava con il suo lavoro perché, diceva, le mie vedove e i miei orfani sono a Scete; erano cioè gli altri monaci del suo deserto. Per abba Isaia la povertà significava essenzialmente distacco. Parlava di "compera pacifica" e di "vendita impassibile" per dire che il commercio in sé non è un limite alla vita spirituale, ma l'atteggiamento con cui si trattano il denaro e gli oggetti. Nilo, nemico delle esagerazioni, raccomandava piuttosto una vita modesta, una povertà media che con il lavoro liberi dai bisogni e lasci spazio per la preghiera.

I Padri del deserto davano insomma della povertà interpretazioni diverse, con la libertà dal legalismo e dal moralismo che contrassegna l'annuncio cristiano. Alla base di ogni scelta volontaria di povertà c'è l'invito di Gesù: se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo: poi vieni e seguimi (Mt 19, 21). Se vuoi, dice Gesù. Solo se vuoi. E' il se vuoi dell'amore che non costringe, che lascia mille possibilità aperte davanti alla volontà dell'uomo, che chiede ad ognuno di trovare la soluzione giusta per sé, quella che gli sta addosso come un vestito cucito apposta per lui.

Abba Poemen racconta di un monaco che viveva tranquillamente nella sua cella con una concubina: nella sua crescita spirituale non era ancora arrivato a capire il perché della castità e della povertà. Ma nessuno gli diceva niente per questo. Quando la donna partorisce, Poemen manda in dono ai due una brocca di vino. Il giovane monaco, che conosceva l'avversione dell'abba per il vino, resta così commosso dal suo gesto che solo allora dà alla donna tutto quello che possiede, la rimanda a casa, si trasferisce accanto a Poemen e dà inizio ad un'altra fase di crescita del suo cammino spirituale. A convertirlo era stato l'amore, non un giudizio di condanna.

Così è anche per noi, nei confronti di noi stessi: non possiamo pretendere quello che non siamo o non siamo ancora capaci di fare. La povertà non ha alcun valore agli occhi di Dio se non nasce dall'umiltà, dall'amore rispettoso che ognuno di noi deve alla propria miseria e alla propria storia, anche quando è tortuosa e complicata.


Flaminia Morandi
NP agosto/settembre 2003

 

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