Vivi come parli

Pubblicato il 30-01-2013

di Flaminia Morandi

Fra le 3000 lingue parlate oggi, circa 78 hanno una letteratura. Centinaia non sono mai state scritte perché non è stato trovato un modo efficace per farlo. Ne consegue che, mentre la Pila di libriscrittura non può esistere senza una lingua orale, una lingua orale può esistere benissimo senza scrittura. Il sapere dell’oralità non si studia né si possiede: si apprende vivendo.

Le lingue africane non sono tutte scritte. Questo non significa che non esista una letteratura, una poesia, una filosofia africane. L’alfabeto fonetico è stato il primo mezzo di comunicazione di massa della storia dell’umanità e come tutti i mezzi di comunicazione cambia la struttura mentale di chi lo usa. La scrittura che ne deriva crea una scissione interna fra pensieri interiorizzati ed espressi, fra pensieri e sentimenti. I greci, che per primi avevano aggiunto le vocali all’impronunciabile alfabeto fenicio l’avevano capito ed espresso nel mito di Cadmo: il re fenicio che aveva importato l’alfabeto aveva seminato denti di drago da cui sarebbero nati uomini in armi. I denti di drago sono le lettere dell’alfabeto; gli uomini armati i pensieri nati dalla scrittura che hanno introdotto l’individualità e il punto di vista, spezzato l’unità della comunità e creato conflitti. Del resto san Paolo scriveva che “la fede viene dall’udito” (Rom 10, 17) e che “la lettera uccide, lo spirito dà vita” (2 Cor 3, 6). E san Tommaso d’Aquino nella Summa Teologica (parte III, questione 42) afferma che “se Cristo insegnò a voce e nulla scrisse, ciò convenne alla sua eccellenza di maestro che imprime gli insegnamenti nell’anima e non nella carta, e convenne all’eccellenza della sua dottrina, che non può essere ristretta e chiusa nei libri”. Per la stessa ragione, aggiunge, né Pitagora né Socrate vollero scrivere mai nulla.
La parola, sacra figlia del suono, non imprigiona, non definisce, non mette etichette. L’udito, il più interiore dei sensi, accoglie e interiorizza, comprende e unifica. La vista vede solo la superficie delle cose, l’udito ne percepisce la profondità.

In occidente, con l’invenzione della stampa alla fine del XV secolo, la frattura interiore diventò ancora più profonda. Il libro diventato più piccolo, maneggevole, trasportabile apriva l’era della lettura silenziosa: in epoca amanuense la lettura ad alta voce aveva coinvolto tutto il corpo e mantenuto il legame con la fisicità personale (cioè con l’interezza della persona) e la comunità dei lettori. Caratteri per la stampaOra invece leggere diventava un fatto di interpretazione personale: una studiosa americana, Elizabeth Eisenstein, ha mostrato i legami profondi fra l’invenzione della stampa e la riforma protestante.
Le conseguenze della scrittura sono incalcolabili, e gli occidentali, vivendo, non se ne rendono conto: eppure quando pensano, scrivono, agiscono si portano dentro categorie da pensiero scritto, alla Aristotele e alla san Tommaso: tesi, antitesi, sintesi. Cioè: dato un fatto, oppongo una critica, traggo una sintesi. Per i popoli di tradizione orale, come sono i popoli africani (ma come in gran parte gli europei orientali) non è così: un africano pensa seguendo un ritmo circolare che parte dall’esperienza e torna all’esperienza, e ha sempre a che fare con la vita. Non a caso un teologo africano contemporaneo parla del pensiero africano come “vitalogia”: essere per gli africani è vita, è forza vitale, energia. Ma anche il monaco dell’Athos Gregorio Palamas, cioè appartenente alla metà orientale del cristianesimo, parlava di “energie divine” nell’uomo.

Molti problemi della chiesa cristiana che è in Africa vengono da qui: da occidentali imbevuti di cultura scritta che arrivati in mezzo a popoli di tradizione orale, hanno semplicemente applicato le loro categorie di pensiero a persone la cui cultura non le prevedeva, e che ne aveva altre, legate unicamente alla vita vissuta. Oggi la teologia parla di inculturazione: calarsi cioè nella cultura dell’altro. Jane Wanjeri, Maasai Homestead Troppo tardi? Di certo aveva ragione Marshall McLuhan quando diceva che nell’evangelizzazione missionaria abbiamo imposto a tanti popoli di tradizione orale uno sforzo di occultamento, legando la fede al libro.

Almeno ora bisognerebbe legare la fede alla convivenza e alla liturgia, ai simboli che per gli africani di cultura orale sono immediatamente comprensibili. Per troppo tempo nel cristianesimo occidentale hanno contato di più i libri dei teologi che la vita concreta delle persone che non hanno mai scritto un libro sulla propria fede. Se invece di imporre un libro, i cristiani occidentali in Africa avessero vissuto l’evangelo nella vita di tutti i giorni, forse oggi l’Africa non sarebbe chiamata come la chiamano i politologi occidentali: uno “zatterone alla deriva”.

Flaminia Morandi
NP giugno/luglio 2005

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