Mens sana in corpore sano

Pubblicato il 30-01-2013

di Flaminia Morandi

malato.jpg.jpgMens sana in corpore sano non è un proverbio cristiano. Un corpo malato, deforme, ributtante, scoordinato, una testa scombinata possono benissimo essere la dimora di un santo. Ermanno lo Storpio non poteva stare in piedi né camminare o stare seduto su una sedia. Le sue dita erano troppo rattrappite per scrivere. Il suo palato troppo deformato per parlare, e le poche parole che uscivano erano stente e difficili a capirsi. I medici del suo tempo, novecento anni fa, lo avevano dichiarato deficiente. I suoi genitori, non sapendo che farne, lo avevano mandato in monastero a Reichenau, sul lago di Costanza. Non si sa in virtù di quale psicoterapia religiosa, che forse si chiama preghiera, la mente di Ermanno cominciò ad aprirsi. Non che i suoi mali migliorassero; non che avesse imparato a star seduto o a camminare; ma forse perché tutti gli volevano bene, lo Storpio prese passione a studiare, e studiò matematica, greco, arabo, latino, astronomia e musica. Con l’aiuto di un amico, quello che poi scrisse la sua biografia, cominciò a scrivere trattati. Ma soprattutto compose inni: il più famoso è il Salve Regina con la melodia a canto fermo, che si canta ancora oggi in tutte le chiese cattoliche del mondo.

Benedetta Bianchi Porro era una ragazza romagnola di Dovadola, nostra contemporanea. A dieci anni comincia a star male: prima le duole un piede, poi la testa, poi diventa zoppa, poi non riesce più a stare eretta. A sedici anni diventa sorda: all’inizio la scambiano per una malattia nervosa. “Cosa importa?”, dice. “Un giorno forse non capirò più niente di quello che gli altri dicono. Ma sentirò sempre la voce della mia anima: è quella che devo seguire”. Ciò nonostante s’iscrive a medicina, e sarà lei stessa a diagnosticare la sua malattia di cui nessuno capisce nulla: neurofibromatosi diffusa, una forma tumorale che conduce alla perdita progressiva di tutti i cinque sensi. È in queste condizioni che scopre la sua vocazione: “io credo nell’amore”. Il giorno della sua morte chiama sua madre e le dice: “Mamma, mettiti in ginocchio e ringrazia Dio per me per tutto quello che mi ha dato”. Se il corpo potesse parlare, scriveva Teodoreto di Ciro, esso direbbe all’anima: siamo andati insieme nel cammino della vita, e senza di me non hai potuto far nulla. Con me hai accumulato il tesoro delle virtù. Insieme all’anima - cioè alla psiche, ai sentimenti, alla volontà, alla memoria - il corpo è il luogo della nostra santificazione, della nostra divinizzazione, diceva Ireneo di Lione.

Il corpo di un cristiano è una chiamata, la cui risposta è la vita eterna. Se l’uomo si sottrae, si rifiuta, cerca solo in sé la propria identità, magari curando e allenando istericamente il proprio corpo, la carne diventa chiusa, separata, sigillata dalla morte. Se l’uomo accetta, se include anche la cura e l’allenamento del corpo nella preghiera, se ogni fatica diventa un’offerta, la luce divina invade ogni angolo del corpo e dell’anima, intride i sensi, inzuppa la psiche, riveste la carne, e la persona diventa bella. La vita nello Spirito rende belli, e la bellezza è il senso della vita spirituale. Ermanno e Benedetta, per esempio, sono stati bellissimi.


Flaminia Morandi
NP febbraio 2006

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