Missione: come assumerla? (1/2)

Pubblicato il 02-10-2016

di Giuseppe Pollano

Icona della Santissima Trinitàdi Giuseppe Pollano – Nel mese di ottobre dedicato alla missione prenderemo in esame tre temi, ognuno sviluppato attraverso due riflessioni. Come assumere la missione? Chi annunciare? Da dove cominciare? Iniziamo con il primo, facendo una premessa sul significato di missione.


La dinamica dell'amore trinitario

Per capire la missione bisogna salire molto in alto nella profondità del mistero stesso di Dio trinitario. Infatti i teologi adoperano il termine missione, prima che per parlare della nostra missione, per indicare le missioni intratrinitarie, l’intimo e intrinseco dono che Dio fa a se stesso: il Padre che genera il Figlio e nello Spirito vivono insieme questo incontro di amore totale.
Le missioni intradivine sono eterne come Dio ed è evidente che ci sarebbero anche se non ci fossimo noi che siamo creature. Ma, ad un certo punto, questa intima comunicazione di amore diventa amore creativo, un bisogno di dare, una voglia di vedere altri ricchi della stessa felicità. Dio questo lo vuole, perché il dono è la sua natura. Per cui ecco la creazione. Il creato, il cosmo è già una missione, è già una emissione di vita, di esistenza, che prepara come un grande e meraviglioso teatro la comparsa di colui che sarà capace di capire e ricambiare, ma anche di peccare, colui che è capace di dire sì ma anche capace di dire no. Ma Dio non vuole che la sua missione debba infrangersi e vanificarsi di fronte al no di un uomo. La missione completa non è Adamo, è Cristo. Il Signore Gesù viene. La missione di Gesù è darci la verità, dirci tutto della vita, dell’amore perché possiamo essere felici. Gesù è veramente il primo missionario.
Egli viene, ed avendo noi detto quel no, dice il suo sì. Per la disobbedienza di uno solo – ci ricorda Paolo (Rom 5,19) – siamo stati tutti costituiti peccatori, ma per l’obbedienza di uno solo siamo stati salvati. Dove è abbondato e abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia di Gesù Cristo. Lui ci salva e con la sua croce e la sua Pasqua ci merita anche l’ultima effusione di Dio, ed ecco la Pentecoste.
Questo Dio che ad un certo punto si dona attraverso la creazione, la Pasqua, la Pentecoste si butta su di noi, ci inonda di vita. Beati noi se accogliamo la vita e l’amore che ci dona Dio. Ma non l’accogliamo per noi. Nasce la missione.


Se contempli, annunci

Gesù viene mandato dal Padre a riempire il mondo di amore e fa la Chiesa, e noi siamo la Chiesa. Perciò nel progetto di Dio la Chiesa è animata di continuo dal bisogno di dare amore. Così dovrebbe essere, ma spesso la Chiesa non si conserva all’altezza di questa sua missione. In ogni caso i cristiani portano dentro questo mondo il mistero dell’azione di Dio. Per quanto facciano cose come tutti gli altri, il significato dell’agire è diverso. Noi siamo in questo mondo per entrare nel dinamismo dell’amore – ecco la missione – e arrivare al cuore degli altri: che sia cuore felice, cuore ferito, cuore piagato, noi arriviamo al cuore con l’amore di Dio.
Può nascere una obiezione: se la Chiesa è questo, come mai spesso non lo è? Come mai molti cristiani sembrano estranei a questo bisogno ardente di Dio di amare?
È importante allora riflettere su come viviamo la nostra missione.

Domandiamoci: come assumere dentro di noi la missione? Come riuscire a comunicare nella vita quotidiana che io mi porto dentro questo mandato e ne sono convinto e lo vivo? Sono domande da tenere molto presenti, importantissime nel concreto della nostra personalità, perché altrimenti rischieremmo di parlare di missione in tante maniere senza che ci prenda la vita.
Per rispondere possiamo prendere spunto da una affermazione che fece Giovanni Paolo II a conclusione dell'enciclica sulla missione, la Redemptoris missio, per descrivere la figura del cristiano missionario: “Il missionario deve essere un contemplativo in azione […]. Il missionario, se non è un contemplativo, non può annunciare il Cristo in modo credibile” (n. 91).
È un'affermazione molto forte perché mette in questione la nostra maniera di essere cristiani e anche di parlare di Gesù Cristo. Se parlo di Gesù Cristo dicendo delle verità da arrabbiato perché sostengo la mia tesi, evidentemente non ho contemplato questo Signore, non ho imparato il suo cuore, la sua mitezza e la sua bontà, quindi non lo annuncio in modo credibile, tanto è vero che con il mio stile irriterò i miei ascoltatori, non li persuaderò che Cristo è il salvatore.
Il papa non ci ha detto che per annunciare Cristo si deve cercare di essere un po’ contemplativi. Per capire meglio il suo pensiero si può rovesciare la frase, si può dire: se io non ho zelo, se non me ne importa granché di annunciare Gesù, evidentemente è perché non lo contemplo. È una affermazione che richiede schiettezza e umiltà e riguarda tutti. Se in realtà non mi importa più di tanto che la mia giornata sia annuncio di Cristo, si evince che Gesù per me è più sconosciuto che conosciuto, ed è sconosciuto perché non so contemplarlo.
La nostra convinzione o diventa attività missionaria oppure fa il contrario, diventa inerzia, insignificanza apostolica. Quindi c'è un rapporto stretto tra contemplazione e missione, come di causa-effetto. Se contempliamo, certamente parleremo di Cristo, impostiamo una causa che produce questo infallibile effetto, ma se non contempliamo, se non poniamo la causa, non capita nulla, diventiamo banali, sappiamo di niente sia come testimonianza della vita sia come testimonianza del gesto, della parola, dell’amore.
A questo punto evidentemente occorre ripassare un po’ il concetto di contemplazione, anche perché non è tra i più consueti del nostro linguaggio. Al massimo diciamo che siamo andati in montagna e abbiamo contemplato un bellissimo paesaggio. Non è esclusa questa contemplazione naturale, perfino il Concilio ricorda che contemplare la natura può far pensare a Dio. Ma non basta. Questa contemplazione naturale della bellezza deve essere assunta dalla contemplazione soprannaturale, quella che si vive grazie allo Spirito Santo e ci illumina sulla bellezza e grandezza dei misteri di Gesù Cristo.
Ma allora cos'è contemplazione? Approfondiremo questo tema nella prossima riflessione.

Giuseppe Pollano
tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore

da Evangelii gaudium, n. 264

La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci. Abbiamo bisogno d’implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale.
Posti dinanzi a Lui con il cuore aperto, lasciando che Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: «Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48).
Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi!
Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che, in definitiva, «quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo» (1Gv 1,3). La migliore motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore.
Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri.




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