CONTEMPLANDO LA SINDONE/2

Pubblicato il 09-11-2011

di Giuseppe Pollano

Sarebbe sorpassato un Dio sublime, ma non sarà mai sorpassato l’Uomo del dolore. Ed alla fine i superbi saranno confusi e gli umili saranno esaltati

di Giuseppe Pollano

Statua di Gesù Ecce Homo, Santuario di Calvaruso, Messina Non un Dio sorpassato

La nozione e il concetto di Dio hanno conosciuto epoche molto più fiorenti. Nel Medio Evo, ad esempio, non esistevano né il vocabolo né la pratica dell’ateismo come noi lo intendiamo; era un concetto puramente filosofico, astratto perché l’ateismo non c’era. Per noi invece è quasi impossibile immaginare una cultura in cui non ci sia l’ateismo. I filosofi positivisti ci hanno detto che prima c’era la religione, poi è venuta la filosofia, adesso c’è la scienza: continua evoluzione e ascesa verso la verità che ha lasciato indietro i miti e le favole: questa è la teoria di Auguste Comte (1798-1857), accettata anche dalla mentalità scientifica di oggi, per la quale Dio è un essere sorpassato di cui non ha neppure più senso dire il nome; è una cifra dietro cui non c’è niente e perciò è inutile discuterne.
Questa è una mentalità diffusa, per cui Dio non ha proprio più niente da dirci e tanto meno da darci e, dunque, il ricordarci di Dio bisogna interpretarlo come segno di debolezza, come bisogno di sostegno, come una sublimazione, oppure come una nevrosi, un’alienazione.
Non è vero, proprio perché questo volto è quello di un uomo ridotto in condizioni strazianti. Noi potremmo dire che sarebbe sorpassato un Dio sublime, l’io assoluto; ma se Dio, pur essendo assoluto, è in questo uomo, se ha preso il volto dell’uomo, se è diventato l’uomo del dolore, allora non sarà mai sorpassato finché non sarà sorpassato il dolore, cioè mai e ogni uomo avrà sempre diritto e possibilità di rivolgersi all’uomo dei dolori. Se non avessimo un Dio che è diventato l’uomo dei dolori, a cosa servirebbe pregare se siamo soltanto noi uomini che soffriamo? Invece questo volto ci dice: “Io sono l’uomo dei dolori, ho preso su di me i dolori tuoi e quelli degli altri e perciò ti sono contemporaneo”.

D’altra parte chi si dedica ai fratelli e li va a cercare non nei momenti della loro gioia ma nei momenti della loro sofferenza, è precisamente per questa misteriosa simultaneità di Dio al dolore del mondo; e questo non sarebbe possibile se non si fosse ridotto ad essere l’uomo dei dolori. Già ne aveva parlato Isaia 700 anni prima: era dunque un progetto. Stentiamo a pensare che fosse un progetto di Dio entrare nella storia per diventare l’uomo dei dolori - nessuno di noi accetterebbe di vivere così - lui però poteva permetterselo col suo amore e con la sua potenza, e l’ha fatto.
Negativo fotografico della Sacra Sindone, Duomo, Torino Non un Dio inaccettabile

In questo volto non vediamo semplicemente il dolore, ma soprattutto un grande sofferente che, però, non ha affatto identificato la vita con il dolore, ma ha assunto la sofferenza con un progetto ben preciso: attraversare la morte per vincere la morte, per vincere la sofferenza. Questo Dio ha preso il dolore per dargli un significato quando non sapremmo darglielo, poiché nessuna filosofia ci verrebbe in aiuto. Allora questo Dio è molto accettabile, altro che inaccettabile.
Talora si pensa al cristianesimo come a una religione in cui la tristezza prevale sulla gioia, perché parla di rinunce, di sacrifici, di penitenze; una religione insomma che taglia le ali, non lascia vivere. Un’accusa infondata, ma che può essere smentita se i cristiani vivono come devono vivere: sereni, lieti e pieni di gioia.
Se guardiamo a Cristo, a Gesù risorto, la nostra religione non si riduce a un cristianesimo triste. Ci sono certo dei momenti in cui il cristianesimo chiede di vivere dei momenti di tristezza. Paolo, scrivendo ai Corinti, dice: “Se vi ho rattristati con la lettera che vi ho scritto, non me ne pento. Prima sono stato un po' dispiaciuto quando ho visto che effettivamente quella lettera vi ha rattristati, sia pure per breve tempo. Ma ora son contento di averla scritta, non perché vi ha addolorati, ma perché questa vostra tristezza vi ha fatto cambiare atteggiamento. Il vostro dolore era come Dio lo desiderava, quindi io non vi ho fatto alcun danno. Infatti, la tristezza che rientra nei piani di Dio fa cambiar vita in modo radicale e porta alla salvezza; invece la tristezza che viene dalle preoccupazioni di questo mondo porta alla morte” (2Cor 7,8-10).

Gesù l’ha paragonata alla sofferenza della donna nel partorire che si trasforma in gioia quando il bimbo è nato. Quando preghiamo: “Padre Nostro che sei nei cieli dacci oggi il nostro pane quotidiano” ricordiamoci che chiediamo a Dio tutto ciò che ci serve per vivere, non solo il pane quotidiano e le cose materiali utili per la vita. Gesù diceva: “Io ho un pane” proprio ai discepoli che avevano già in mano delle pagnotte che erano appena andati a comprare, ma con queste parole intendeva dire che voleva fare la volontà del Padre. Gesù ogni giorno non sapeva che cosa gli sarebbe accaduto, accettava il pane che il Padre gli porgeva. Se uno crede in questo, mangia il pane anche quando è un po’ duro, un po’ amaro perché sa che viene da Dio.
In ogni caso noi non abbiamo ancora patito come Gesù, ecco perché questo volto è molto accettabile.


Non un Dio tragico

Infine questo volto non è tragedia greca, nel senso che non comunica il senso greco della vita, che è tragico perché l’eroe paga sempre, perché gli dei misteriosamente vincono sempre e mettono in scacco l’uomo. Se fosse così, sarebbe terribile. Davanti alla Sindone noi non vediamo il senso tragico della vita.
Il volto di Cristo raccoglie in sé tutte le ingiustizie che un uomo può patire. È un volto che parla chiaro ai suoi uccisori, a tutti gli ingiusti del mondo, a tutti i prepotenti, a tutti i prevaricatori. Parla chiaro perché questi occhi si riapriranno e riaprendosi giudicheranno il mondo.
 
Giuseppe Sanmartino, Cristo velato, Cappella di San Severo, Napoli
L’Apocalisse ci descrive queste scene, quando il mondo sarà scosso, quando i potenti e i grandi diranno ai monti e alle colline: “Cadeteci addosso e nascondeteci perché non vogliamo incontrarlo” (Ap 6,16), ma egli chiederà loro conto di tutti gli strazi, i dolori, le ingiustizie, le miserie di cui è disseminata questa povera terra. Non sfuggirà nulla né di grande né di piccolo a questi occhi che hanno fatto l’esperienza dell’essere oppresso e ucciso. Allora questo è un volto consolatorio. Se ci sarà tragedia, sarà per coloro che se la sono tirata addosso perché hanno praticato l’ingiustizia, e di questo dovranno rendere conto ai fratelli.

Il volto sindonico è il testimone non di una tragedia che non finisce mai, ma, anzi, del “magnificat”: alla fine i superbi saranno confusi e gli umili saranno esaltati. Non dimentichiamo allora di guardarlo quando ci sentiamo un po’ oppressi, un po’ umiliati, un po’ schiacciati, maltrattati; insomma dalla parte di chi avrebbe tutti i diritti di lamentarsi e di ribellarsi.
Questo è un volto che aiuta la speranza. Pietà e giustizia non sono affatto morte, Gesù è risorto per questo, l’ultimo giudizio sistemerà tutte le dimensioni della storia. Se non si ricorda questo, si diventa tristi quando, sotto il peso della tristezza per le sofferenze, non si può o non si sa come intervenire. Ma anche Dio vede, abbiamo questa certezza.
 

Giuseppe Pollano
tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore


CONTEMPLANDO LA SINDONE/1
CONTEMPLANDO LA SINDONE/3

Vedi il dossier:
Mons. Giuseppe Pollano - riflessioni inedite per la Fraternità del Sermig

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