L'attesa come senso della vita

Pubblicato il 07-12-2014

di Giuseppe Pollano

Nella seconda lettura che la liturgia propone nella I domenica di avvento anno B, Paolo pone la questione della vita non solo come vero rapporto con Dio, ma come attesa.

Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro! (1 Corinti 1,3-9)

Riferendosi a Gesù Cristo che ormai è risorto, Paolo dice ai Corinzi: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi mentre aspettate la manifestazione del Signore Gesù Cristo”, come a dire che per quanto noi facciamo delle cose, incontriamo dei volti, l'essenziale non è ancora avvenuto, perché l'essenziale non è un concetto filosofico, ma è la manifestazione di Gesù Cristo che finalmente vedo dopo una vita di attesa. Non è soltanto un sospiro mistico e sublime. In fondo tutti noi aspettiamo di vedere il Signore: lo amiamo senza vederlo, crediamo in lui, e questi non sono sentimentalismi, sono coscienza che ci fanno fare delle scelte spesso molte costose. In fondo ci giochiamo la vita su questa attesa. “Attendo te, Signore” è “Tendo a te, Signore, con la vita, con il cuore”.


La Speranza e le speranze

Vivere un presente che si controlla e un futuro incerto è l'inevitabile limitatezza di chi si tiene ben stretto il presente il quale, essendo solido, diventa il senso della vita: mi attacco al mio presente finché c'è. Il cristiano rovescia questa prospettiva: non vive un presente noto e posseduto e un futuro vago, ma vive un futuro certissimo, il Cristo Signore che aspetto di vedere, che influisce sul mio presente. La mia certezza mi viene da Gesù, che è vivo e risorto, che mi è continuamente compagno di strada e che rende certi i miei incerti passi e che dà forza al mio vacillante cuore, perché il mio presente, se ci penso bene, è fatto di passi incerti e vacillanti, poiché è piccolo lo spazio delle mie sicurezze.
Avere un futuro certissimo fa vivere adoperando intelligenza, intraprendenza, coraggio, volontà per vivere in modo degno, sapendo che questo mio lavorio, a volte faticoso, deludente, frustrante ha senso perché la mia certezza mi viene da Dio che mi dice : “Vieni, io mi manifesto”. Infatti ci può capitare, mentre abbiamo il cuore vacillante, di sentirci misteriosamente sicuri, di percepire la vita come una scommessa, ma vissuta con Uno che comunque ha già vinto e che tende a noi con tutte le sue forze.

Noi abbiamo la possibilità allora di esistere sotto l'impulso della Speranza divina, quella che ci viene da Dio. È importante fare un confronto tra questa Speranza e le speranze di cui pure abbiamo bisogno, le cose piccole e grandi che desideriamo a buon diritto. La vita ha una buona percentuale di queste speranze e certune sono così forti che ci prendono: sperare che un amico non ci inganni, che una persona ci voglia proprio bene, che una malattia guarisca. Succede ogni momento. Sono però speranze, che si avverano o no. Se non si avverano lo capiamo da soli, ma la questione più insidiosa è quando si avverano, perché ci accorgiamo che non è capitato ancora tutto. Nessuna speranza umana è tale da farci affermare che finalmente si è raggiunto il tutto, non diventa mai la Speranza soddisfatta.
Il gioco delle speranze è inevitabile, perché non si può non sperare, però ha i suoi rischi, perché si rischia la delusione.
Una somma di speranze frustrate e non vissute con fede intristisce molto; ci sono molti cristiani tristi perché non percepiscono che, al di là delle speranze, hanno la Speranza. È importante confrontare i moti del cuore, perché la Speranza ha doti incredibili: colmerà in modo perfetto, fa tendere ad un bene perfetto che non finirà più, perché la Speranza ci radica nell'eterno. Gesù ci ha assicurato che il Regno non finirà: l'essere insieme, il gioire tra noi, la comunione dei santi, Dio con noi. Con questa Speranza noi facciamo il nostro viaggio quaggiù nel mondo.


Il contesto culturale da cui partiamo

Questi pensieri della dottrina cristiana probabilmente non ci sono così famigliari, anche perché le speranze oggi sono suscitate dall'esterno. Abbiamo all'orizzonte possibilità molto vaste, tutti ci promettono tutto. Il lasciarsi incantare è una situazione propria dell'esperienza giovanile, che è più aperta e fiduciosa e quindi si fida, si affida (af-fidare) anzi.
Per i giovani oggi è già una grande saggezza distinguere e verificare quelli che promettono tutto, per sapersi destreggiare in quella ricerca ossessionante del consumatore così attuale oggi, per saper diffidare (dif-fidare) di tutte le promesse così enormemente moltiplicate relative al piano del benessere: scegliere di chi ti fidi e della sua promessa, comunque ricordando che è relativa, è un compito non facile oggi. Una persona che promette che ti vuole per sempre è onesta e sincera, per cui c'è da ringraziare Dio, ma non bisogna dimenticare che è una persona. La Speranza è fondata sulla persona di Dio.

Teologicamente parlando i due peccati contro la Speranza sono appoggiarsi totalmente alle speranze pensando che bastino, e questo è il peccato della presunzione (mi faccio felice da solo) oppure, al contrario, essere convinti che non c'è speranza, e questo è il peccato della disperazione. Sono i due poli opposti della caduta della Speranza reale.
La nostra cultura oggi è presuntuosa e disperata. Appoggia la presunzione soprattutto sul settore dei risultati quasi sicuri raggiunti dalla scienza e dalla tecnologia. Una parte della cultura, che è quella che tira un po' tutto il mondo, quella dell'Occidente, pensa che ormai, attraverso tecniche sempre più sofisticate, noi risolviamo tutti i problemi. È un'antichissima illusione. Penetrare dentro territori che erano ritenuti inviolabili, per esempio la bioingegneria, oppure rompere duramente il rapporto con la natura, la questione ecologica, danno la misura della nostra presunzione, della assoluta certezza che prima o poi le speranze saranno tutte esaudite.
Noi siamo figli di questa cultura dalla quale dobbiamo anche imparare a guardarsi. La scienza serve, è una cosa stupenda, ma non bisogna lasciarsi ubriacare: deve lavorare per l'uomo, perché tutto deve essere indirizzato a lui, anzi, deve farlo perché porta all'uomo molte speranze, ma bisogna sempre ricordare che la Speranza è un'altra, che in questo mondo si lavora nel piccolo, nel provvisorio, che non è la Felicità.
La presunzione tecnica è in contrasto con la debolezza della costruzione umana, intesa come convivenza, come equilibrio tra noi, quindi la distribuzione dei beni, il rispetto dell'altro.... La debolissima costruzione umana della cultura di oggi porta ad un contrasto planetario molto forte e doloroso (pensiamo anche solo a chi muore di fame).
Questo contrasto molto doloroso, questa incertezza degli altri che non riusciamo a collegare socialmente con le soluzioni della tecnica, si paga in prezzo di vite, per cui in agguato c'è la disperazione che si insinua in noi. Il grande fenomeno droga, inteso non soltanto come ricerca di una gratificazione, di un piacere, di una illusione, ma più globalmente come la decisione che non c'è nessuna essenza nella vita e che pertanto la vita non ha altro senso che essere spesa per quello che dà, è la disperazione fatta vita, anche se il ragazzo che in qualche maniera è in estasi non dirà mai che è disperato; ma non spera in niente e lucidamente ti può anche dire che preferisce vivere tre anni così che trent'anni in un altro modo. Sono scelte filosofiche.


In cammino

Veglia, digiuno, preghiera sono l'antico treppiede per far avanzare il pellegrinaggio della vita.
La veglia non vuol dire solo stare svegli, ma vigilare, stare attenti a Dio, strappare un po' di tempo al normale e farlo diventare un guardare di più Dio, perché è l'essenza della vita.
Il digiuno non vuol solo dire non mangiare, ma regolare la propria fame, non saziare le proprie fami sbagliate, perché ingannano. Noi abbiamo molte fami e seti che vengono da ogni dove, ma dovremmo essere un po' saggi e domandarci cosa ci darà la fame che voglio soddisfare. Il digiuno perciò è non soddisfare le proprie fami, non è altro che il simbolo che io voglio essere padrone e non servo delle mie fami.
La preghiera, poi, è il rapporto con Dio.
Sono forti questi richiami, gli unici che ci fanno stare in piedi con dignità. Il cristiano poco serio oggi è un fantasma, non ha alcun significato per gli altri, invece il cristiano serio si tiene in piedi con questa forte armatura.


tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore


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