MOSSI DALLO SPIRITO: Padre Michele Pellegrino

Pubblicato il 09-08-2012

di Redazione Sermig


Martedì 10 ottobre ricorrono i 20 anni dalla morte del Card. Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino dal ’65 al ’77. La Fraternità del Sermig vuole ricordare il maestro e padre, la guida e l’amico. E lo fa con le parole che Ernesto Olivero ha dettato dal Libano, dove si trova per portare il secondo carico di aiuti umanitari: “Il cardinal Pellegrino per me, per noi, è stato il padre buono e severo, profondo, disponibile, il padre che ci ha riconosciuti quando noi stessi non ci conoscevamo ancora”. Il padre è stato per noi come una carezza di Dio. E così si intitola il brano con il quale vogliamo ricordarlo.


Fraternità del Sermig

LA CAREZZA DI DIO

Avevo incontrato padre Michele Pellegrino per la prima volta nell'aprile del 1969 come arcivescovo di Torino. Con un gruppo di amici avevamo fondato il Sermig nell'ufficio delle Pontificie Opere Missionarie. Un giorno ricevemmo una lettera dall’Ufficio Missionario della Curia in cui, con una brutalità inaudita, ci facevano fuori. Dovevamo trovarci un’altra sede. Molti dei miei amici volevano protestare, polemizzare, trasmettere la lettera ai giornali. Sarebbe stato uno scandalo, ma sentii con grande stupore che questa lettera aveva un senso e decisi di proporre un mese di silenzio per capire.

Io ero soprannominato ‘‘Vesuvio’’ non solo per le mie origini. Non avevo mai visto di persona l’Arcivescovo di Torino, non sapevo neanche come avrei dovuto chiamarlo, ma sentivo che avrei dovuto portare a lui la lettera. L’appuntamento ci fu concesso. Prima di entrare chiesi al segretario come dovevo rivolgermi al Cardinale. Mi disse: “Eminenza” - allora si faceva chiamare così -. Per non sbagliarmi lo scrissi su un pezzo di carta e lo tenni in mano.
Andai da lui con la lettera. "Eminenza, noi vorremmo essere un gruppo nella Chiesa, un gruppo missionario". Il suo sguardo diventò di ghiaccio, batté i pugni sulla scrivania e disse: "... la mania di formare nuovi gruppi! Esistono già dei gruppi nella diocesi, ce n'è uno in particolare, unitevi a questo, lavora molto bene!". Chiesi: "Eminenza, qual è questo gruppo?". E lui: "E' il Sermig, Servizio Missionario Giovani: unitevi a loro!". E io prontamente: "Eminenza, quel bel gruppo ‘eravamo’ noi". Gli presentai la lettera. Iniziò a leggerla attentamente. Dopo poche righe si alzò e con una certa rudezza mi congedò, dicendo che si doveva informare.

Lasciammo comunque l'Ufficio delle Pontificie Opere Missionarie e iniziammo la nostra peregrinazione alla ricerca di una sede. Ma da quel momento ci furono mille incontri, mille momenti da ricordare, mille sfumature di amicizia con padre Pellegrino.
Ricordo quando ci diede la chiesa di via Arcivescovado. Don Piergiacomo, il suo segretario, aveva chiesto se potevo accompagnare il padre in macchina alla stazione. Arrivati all'incrocio di via XX Settembre, il padre mi chiese: "Siete ancora senza sede?" E io: "Non abbiamo neanche un sasso dove posare il capo". E lui, con candida ironia: "Ho pensato di darvi la chiesa dell'Arcivescovado". Ne fui commosso. “Ma, padre, sa chi siamo noi?”. Il padre continuò: "Io so chi siete voi e nella casa di un cardinale è bene che capitino certe cose".

Nel periodo della legge sull'aborto, la Chiesa, in particolare a Torino, fu attaccata pesantemente da gruppi estremisti. In alcune città i cattolici reagirono con toni aspri. La nostra risposta fu una veglia di preghiera: 48 ore di silenzio e adorazione nella chiesa di Via Arcivescovado. Nessun intervento.
Il padre venne a pregare un momento con noi ed io timidamente domandai se poteva fare un'eccezione al silenzio e darci un messaggio.
Andò al microfono e disse una frase indimenticabile: "Quando sono diventato prete e poi quando sono diventato professore, quando sono diventato monsignore, vescovo, cardinale, mi avessero detto che avrei partecipato ad una cosa così bella, non ci avrei creduto. E' la cosa più bella che abbia visto e alla quale abbia mai partecipato!".

I ricordi mi si affollano nella mente in modo disordinato, vivi e presenti.
Ricordo quando un caro amico mi portò l'angoscia di una ragazza madre. Aveva voluto che suo figlio nascesse, perché credeva nella vita e ne aveva accettato tutte le conseguenze. In quei giorni un istituto scolastico religioso aveva rifiutato l’iscrizione a suo figlio perché la situazione famigliare non era regolare. Raccontai al padre questo fatto. Ne fu addolorato come me. Non mi disse nulla. Ci lasciammo, ma il giorno dopo il direttore della scuola mandò a chiamare quella donna e ne accolse il figlio.

Nel 1974, vicino a Parigi, si tenne il Salone delle Armi. A modo nostro cercammo di dare una risposta di speranza. Un gruppo di amici fece una lunga ricerca di materiale, poi realizzammo una mostra a Porta Nuova. Era il nostro "Salone della vita". Non avevo osato invitare il padre, perché era già venuto tante e tante volte da noi; ma egli seppe comunque di questa manifestazione e venne di sua iniziativa.
Venne solo, semplicemente per testimoniare con la sua presenza, la piena adesione ai valori della vita.

Mi commuovo quando penso ai mesi in cui il padre, una volta alla settimana, scendeva lo scalone dell'Arcivescovado, bussava alla porticina d'ingresso della nostra sede, si sedeva con noi attorno al tavolo, nella sacrestia e ci spiegava il Vangelo di Giovanni. Una cinquantina di ragazzi, un registratore e lui, il cardinale, con la paternità e l'affabilità che lo distinguevano, ci educava al gusto della Parola.

Un giorno del 1972 il padre mi chiamò, mi disse che veniva a Torino Dom Helder Camara e mi domandò di organizzare a nome suo un grande incontro per far conoscere in diretta questo suo caro amico alla gente di Torino. Radunammo oltre 10.000 persone al Palazzetto dello Sport. Fu un'emozione enorme attraversare il palco tenendo a braccetto da un lato il padre e dall'altro Dom Helder (vedi foto a lato).

Il 13 maggio 1973 avevamo organizzato, sempre al Palazzetto dello Sport, il "Pomeriggio di speranza". C'era una folla. Padre Pellegrino era fra noi, come sempre e con la sua espressione apparentemente severa, mi disse: "Ernesto, io non ho capito se sei tu un mio collaboratore, o se sono io il tuo collaboratore" e il sorriso gli illuminò gli occhi.
In un momento molto difficile della nostra storia avevamo denunciato pubblicamente alcuni medici corrotti. La notizia era scoppiata come una bomba ed era giunta a lui, probabilmente accompagnata dalle rimostranze di qualcuno. Il padre mi incrociò nel cortile dell'Arcivescovado, mi guardò con severità e mi disse che avevamo esagerato, che avevamo sbagliato tutto.
Gli portai alcune prove inconfutabili, pulite, serene. Lui si ricredette immediatamente. Disse che avevamo coraggio, che avevamo più coraggio di lui e concluse:" Se vi capita qualcosa, ci sarà un cardinale amico che vi difenderà!". Buttò tutto il peso della sua persona, della sua autorità sulla bilancia, stando dalla parte di un pugno di persone, noi, che eravamo pochi, impauriti.

Quando il padre ed io siamo entrati in profonda sintonia, le prove di affetto e stima sono diventate quasi quotidiane. Sovente mi ha fatto incontrare amici che andavano a trovarlo per aiutarmi a crescere nelle idee e nella spiritualità, una vera delicatezza. Uno di questi incontri rimasto indelebile nella memoria è stato con Giuseppe Lazzati. Siamo entrati in quella profonda comunione di cuore che ancor oggi continua nella comunione dei Santi. Ancora una volta mi viene da ribadire che la Provvidenza, in ogni incontro, aiuta a migliorare.

Don Giacomo Quaglia è stato testimone di una “invasione” nella camera di ospedale del Padre. Era stato colpito dal primo ictus e don Giacomo aveva l’ordine di non far passare visite.
Mi feci largo con forza. Don Giacomo non insistette più di tanto. Mi inginocchiai ai piedi del letto e gli dissi una sola frase: “Padre, è arrivato l’Arsenale. Lo chiameremo Casa della Speranza”.
Visitando l’Arsenale, don Giacomo mi ha detto: “Capisco ora che quella tua “invasione” era giusta”.

Il padre passò da un ictus all’altro, già diverse volte era stato in fin di vita. Una di queste volte, mi era stata data la possibilità di pregare al suo capezzale, mentre gli amministravano l'unzione degli infermi. Era assorto, pieno di dignità anche in un letto di ospedale. Vedendolo, sentii che non sarebbe morto: avrebbe vissuto ancora. Già altre volte avevo avuto questo pensiero per lui; quando glielo raccontai commentò sorridendo: “Ernesto, si vede che il Signore uno come te lo ascolta”.

In un secondo momento, il suo segretario mi telefonò: "Ernesto, il padre parla di te oggi alla radio". Disse due parole: ci abbinò alla speranza. Sentii allora l'esigenza di andarlo a trovare nella sua casa, a Vallo. Non so perché, ma portai con me il registratore. Gli chiesi il permesso di usarlo, accettò e il nostro dialogo diventò il suo testamento spirituale. Fu la sua ultima intervista, tre o quattro giorni prima che l'ictus gli togliesse l'uso della parola. Non aveva più l'uso della parola, non poteva più esprimersi. Andavo a trovarlo una, due volte la settimana. Ogni volta stringevo la sua testa fra le mie braccia e gli dicevo semplicemente: "Lei lo sa che le voglio bene!", dicevamo una preghiera e lui rispondeva con gli occhi.

Ormai era immobile in un letto, all'ospedale Cottolengo. Un giorno fui chiamato perché il padre era in coma. Andai da lui. Non riconosceva più nessuno, ma Concetta, la sua fedele collaboratrice, non si arrese, lo chiamò: "Padre, c'è Ernesto!". Aprì gli occhi, mi salutò con un cenno, mi diede la mano, ed io "Grazie padre, grazie amico mio!".
Dopo poche ore - era il 10 ottobre 1986 - il padre morì.

(da: Ernesto Olivero, “Dio non guarda l’orologio”, Mondadori 1999)

 

Lettera 9 ottobre 1976 indirizzata da padre Pellegrino agli amici del Sermig
Dalle Lettere pastorali di padre Pellegrino:
SULLA PREGHIERA
SUL MONDO D’OGGI





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