La strada del figlio

Pubblicato il 13-01-2014

di Luciano Monari

Illustrazione di Gian Piero Ferraridi Luciano Monari*A dodici anni Gesù va in pellegrinaggio con i suoi genitori a Gerusalemme. Quando è il momento del ritorno, però, invece di aggregarsi alla carovana dei pellegrini, si ferma nel Tempio dove sacerdoti e scribi vivono e insegnano la legge di Dio.

Deve avere un fascino grande quel Tempio per attirare un ragazzo e fargli dimenticare ogni altra cosa. Quando, tre giorni dopo, Maria lo ritrova, gli fa un rimprovero delicatissimo ma fermo: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. La risposta di Gesù sono le sue prime parole che ci vengono riportate nel vangelo, parole misteriose, ma che esprimono una coscienza religiosa forte, che si va sviluppando in lui: “Perché mi cercavate? Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Dunque, il riferimento determinante di Gesù è il Padre; ciò che riguarda il Padre è oggetto dei suoi interessi; la ricerca e l’esecuzione della volontà del Padre è l’obiettivo della sua vita.

Mi chiedo che cosa possa aver significato per Maria ricevere una risposta di questo genere e mi sembra che debba essere stato l’inizio di un processo che terminerà sul Calvario, quando Maria perderà definitivamente il suo Figlio. È il processo che, in diverse misure, tutte le madri sono chiamate a vivere. Esse portano i figli in grembo per nove mesi; poi li mettono al mondo e sperimentano, così, una prima forma di separazione. Per qualche tempo i figli dipendono totalmente da loro; poi, poco alla volta, i figli si emancipano ed entrano sempre più responsabilmente nel mondo con la loro libertà, la loro vocazione, i loro progetti. Una madre deve essere così libera e così generosa da accettare il distacco dei figli da lei, anzi da desiderarlo e da favorirlo. Il vangelo ci narra come un’esperienza di questo genere è stata vissuta anche da Maria; è la storia della sua fede.
Per fede aveva accolto la parola di Dio; per fede era diventata madre; per fede accetta che il figlio non le appartenga ma percorra una strada sua propria di obbedienza a Dio. Maria non dovrà cercare Gesù per trattenerlo a casa; dovrà invece accettare che Gesù si occupi delle cose del Padre suo; dovrà, anzi, favorire lo sviluppo della sua sensibilità religiosa. In questo modo Maria, poco alla volta, donerà il figlio che ha ricevuto: lo donerà a Dio e nello stesso tempo lo donerà al mondo perché Gesù compia nel mondo la missione che Dio gli affida. Avere fede, in questo caso, significa accettare di perdere ciò per cui si è vissuto, accettare di non avere il controllo pieno di ciò che si è costruito, accettare di consegnare ciò che si ha di più caro a Dio perché Dio sia il senso della sua vita.

Anche Abramo aveva fatto un’esperienza simile. Dopo un’attesa di molti anni, quando ormai la cosa sembrava impossibile, aveva ricevuto in dono Isacco, il figlio della promessa. Ma viene il momento in cui Dio gli chiede il dono di questo figlio: “Va’ nel territorio di Moria e offrilo in sacrificio”. È vero che Abramo viene solo messo alla prova e che, superata la prova tragica dell’obbedienza, potrà scendere dal monte avendo ancora il figlio al fianco. Ma Abramo ha acquistato una consapevolezza chiara che quel figlio è suo ma non del tutto, che in realtà Isacco è di Dio e che Dio solo può dire l’ultima parola sulla vita e sulla morte di lui.

Dice il vangelo che Gesù dodicenne, tornato a Nazareth, stava sottomesso ai suoi genitori: la tutela c’è ancora, ma c’è la consapevolezza che questa tutela è provvisoria; obbedendo ai suoi genitori Gesù impara l’obbedienza al Padre, ma verrà il momento in cui l’obbedienza al Padre lo porterà lontano da casa per affrontare la sua avventura. Solo in questo modo egli darà senso alla sua vita e nello stesso tempo darà senso pieno anche alla vita dei suoi genitori.

* Vescovo di Brescia

Abbi fede – Rubrica di Nuovo Progetto (aprile 2013)

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