Vite perdute

Pubblicato il 26-10-2013

di Flaminia Morandi

Rappresentazione del VI secolo di Simeone sulla sua colonnadi Flaminia Morandi - Era un pastorello ragazzino, san Simeone Stilita, quando s’era andato a infilare in una profonda cisterna per poi prendere fissa dimora nel deserto, su una colonna che alzava col passare degli anni. Sant’Alessio era fuggito alla vigilia delle nozze dalla sua ricca casa per farsi mendicante. Anni dopo era andato a stabilirsi nel sottoscala della casa paterna senza farsi riconoscere e solo trovandolo morto il padre aveva scoperto la sua identità dalla carta che stringeva sul petto. Santa Teresina del Bambino Gesù s’era messa in mente da piccola di entrare nel Carmelo; una volta dentro, accusava disturbi digestivi e un’insonnia persistente, ma non per questo si sognò mai di uscirne. La tradizione russa raccoglie storie innumerevoli di jurodivye, i pazzi per Cristo, interpreti alla lettera di un passo della prima lettera ai Corinzi: la follia di Dio è più sapiente degli uomini, la debolezza di Dio è più forte degli uomini. Procopio di Ustig o Isidor di Rostov si facevano credere pazzi, giravano nudi con catene avvolte intorno al corpo, si lasciavano insultare e intanto in segreto pregavano per coloro che li perseguitavano. Molti di loro erano stati ricchi e potenti, e molti usavano la loro pazzia per denunciare i vizi dei nobili e prendere le difese dei poveri.

Se oggi ricomparisse tra noi un san Francesco d’Assisi lo spediremmo a fare una terapia psicanalitica per arrivare a fondo del suo problema col padre, insieme a sant’Alessio. Teresina la manderemmo in un centro per l’anoressia. Gli jurodivye verrebbero arrestati e messi in una casa protetta. A san Simeone toccherebbe un manicomio vero e proprio, ciechi come siamo davanti ai simboli che salvano: la cisterna della discesa nel profondo, passaggio necessario per la conoscenza di sé e l’incontro personale con Dio, la colonna della risurrezione e dell’ascesa in Cristo.

Il conformismo ci si è appiccicato addosso come una melassa, ci fa scambiare le vocazioni per patologie. Guai se vediamo un bambino malinconico, pensoso o solitario, poco integrato a scuola o con gli amici. Guai se una ragazzina disdegna i segni banali della femminilità. Guai se qualcuno osa leggere con ritardo. Apriti cielo, è subito dislessico: che avremmo fatto a san Sergio di Radonez, riformatore del monachesimo russo, che imparò a leggere solo da ragazzo e sul testo dei salmi?
Anche in questo, come in tante altre cose, manifestiamo nei fatti l’ateismo che ci abita, spesso, ohimè, incoscienti di dargli dimora. L’ateismo di dimenticare ciò che diciamo di credere, che lo Spirito abita in noi nel profondo, e c’è chi dalla nascita vive con lui in presa diretta. Come degli schizofrenici che in chiesa credono e nella vita seguono il branco, ci scordiamo davanti ai nostri figli che certi atteggiamenti più interiori sono spesso il segno di una vocazione, cioè di un bisogno innato del bambino di raccoglimento e di contemplazione, un invito speciale a camminare più spedito verso Dio.

Quell’invito il bambino, fresco di creazione, lo percepisce con chiarezza; noi purtroppo no, e ci diamo gran da fare a reprimerlo, diventando così, noi, i credenti, origine di deviazioni e perversioni, e di tante vite giovani perdute al Signore.


MINIMA – Rubrica di Nuovo Progetto

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