Il mondo ortodosso russo tra tradizione e post-modernità

Pubblicato il 30-01-2013

di Flaminia Morandi

La diffidenza degli ortodossi russi nei confronti della missione cattolica in casa propria, è comprensibilissima. Oltre ai motivi dell’isolamento storico russo zarista, risiede nella diversa concezione della missione che hanno gli ortodossi e i cattolici.
Per gli ortodossi, la liturgia è un metodo di missione perché dall’eucaristia emana un’attrazione magnetica che colpisce anche il visitatore casuale che entra in chiesa durante la messa. Iconostasi della cappella del refettorio nel Monastero della Trinità di San Sergio, SergievAnche la loro iconostasi, la parete dipinta che separa l’altare dal popolo, è un segno di quanto gli ortodossi abbiano il senso del mistero del sacramento. Lo stesso senso dell’arcano dei cristiani dei primi secoli, presso i quali era proibito far assistere alla messa i catecumeni e i non iniziati, perché attorno al tavolo della mensa avveniva qualcosa di straordinario che non era adatto a tutti, ma solo ai cristiani maturi e progrediti nella vita spirituale.

La centralità della liturgia nella missione ortodossa deriva, si dice, dalla leggenda della “scelta di fede” del popolo russo. Il principe Vladimir aveva inviato ambasciatori presso i musulmani, gli ebrei, i latini e i greci per conoscere le loro religioni e sceglierne una adatta al popolo russo. Alla fine optò per il cristianesimo nella forma bizantina perché gli ambasciatori gli avevano riferito che nella chiesa di Costantinopoli essi non avevano più saputo dove si trovavano “in cielo o in terra, perché sulla terra non si trova una simile bellezza. Non sappiamo cosa dire, una cosa sola sappiamo: che là Dio dimora con gli uomini...”.
Se la liturgia è il centro della missione, vuol dire che per convertire chi è lontano bisogna lasciar fare allo Spirito Santo, lasciare che colpisca l’altro, senza interferire. Per noi cattolici occidentali così attivi e sensibili ai problemi sociali, può essere difficile da capire; ma gli ortodossi, figli del Vangelo di Giovanni, sono molto attenti al rapporto personale interiore con Dio, alla lotta interiore con le tentazioni, alla via contemplativa.

Per capire in pratica cosa significa fare missione per gli ortodossi c’è il caso di Nicola Kasatkin. Nel 1860 il giovane monaco Nicola fu comandato in missione ad Hokodate, a fare il rettore in una cappella di rito bizantino aperta in Giappone dal consolato russo, perché in epoca zarista Chiesa e Stato agivano di conserva.
Nicola attraversò i diecimila kilometri che separavano la Russia dal Giappone e valicò gli Urali e la Siberia a dorso di cavallo. Ci mise un anno, perché si fermò dall’arcivescovo della Kamcatka, famoso missionario, che gli diede utili consigli pastorali. Icona di San Nicola illuminatore del GiapponeMa una volta in Giappone, Nicola scoprì che la predicazione del Vangelo era impossibile: i giapponesi, scrisse, consideravano il cristianesimo come “una setta scellerata” a cui solo dei “criminali” potevano aderire. Per sette anni studiò la lingua giapponese, la geografia, la storia e la cultura del Paese. Un giorno, a casa del console russo, incontrò Paolo Savabe, ministro del più antico tempio shintoista della città, il quale dava lezioni di scherma al figlio del console. Savabe quasi aggredì Nicola, dicendo parole di disprezzo sul cristianesimo. Ma quando si incontrarono il giorno dopo, qualcosa nell’atteggiamento di Nicola doveva già averlo colpito, perché s’era ammorbidito. Alcuni giorni dopo, chiese addirittura a Nicola di fargli conoscere più a fondo il credo cristiano.

Un anno dopo questo episodio, Savabe portò a Nicola un suo amico, e poi un altro e poi un altro ancora. Volevano battezzarsi, ma Nicola non volle, non aveva fretta, preferiva che i nuovi amici assimilassero meglio la verità della fede. E poi non voleva esporli al pericolo di persecuzioni, perché a quell’epoca in Giappone c’era la pena capitale per chi diventava cristiano. Senza essere battezzati, Savabe e compagni, cominciarono a diffondere il cristianesimo e a guadagnare nuovi discepoli. Quando scoppiò la persecuzione contro di loro, nessuno, neppure tra i non battezzati, ripudiò la fede. Fu anche grazie alla delicatezza di Nicola ed al coraggio dei suoi discepoli che qualche anno dopo il governo abrogò le leggi contrarie al cristianesimo. Era arrivato il momento, per Nicola, di tradurre in giapponese i riti sacri. Ci vollero altri anni ed esperti venuti dalla Russia per musicare i testi dell’Ufficio sul modello cinese.

Solo nel 1880, cioè 20 anni dopo il suo arrivo, Nicola fu nominato vescovo di una vera Chiesa locale con i suoi sacerdoti autoctoni e le sue 5.000 anime, che sei anni dopo erano già 12.000. Liturgia ortodossa nella Chiesa della Protezione della Vergine, OsakaLa fede era radicata così fortemente che nessuno abiurò neppure durante la guerra russo-giapponese dei primi anni del ‘900, con Nicola accusato di essere una spia russa e i suoi fedeli dei traditori della patria. Anzi, alla fine della guerra, i fedeli risultarono più che raddoppiati.
La liturgia, la Parola, il rapporto di paternità spirituale, il rispetto dei tempi di crescita dell’altro, il calarsi nella cultura e nella lingua, l’uscire da sé e dalle proprie certezze e dai propri parametri di giudizio: tutte cose che si insegnano nelle facoltà missionarie occidentali e che Kasatkin aveva fatto prima che queste facoltà fossero istituite.
Si può capire perché i nostri fratelli ortodossi siano perplessi di fronte all’apertura delle librerie cattoliche megagalattiche o allo sfoggio di denaro di certe congregazioni. Cristo ci ha insegnato a spogliarci di noi stessi nel rapporto con l’altro. Chissà come mai è così difficile per noi impararlo?

Flaminia Morandi
NP ottobre 2017

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