Accogliamo così

Pubblicato il 19-11-2018

di Ernesto Olivero

di Ernesto Olivero - L’Arsenale della Pace ha cominciato davvero ad aprire le porte agli stranieri negli anni ’80. Non era nei nostri pro­grammi gestire delle accoglienze di questo tipo, ma anche quella volta fu l’imprevisto a cambiare ogni piano. L’imprevisto che prese la forma di un dito puntato, di un giovane norda­fricano che nel bel mezzo di un incon­tro pubblico, si alzò, chiese la parola e spiazzando tutti disse a me: «Ehi, Oli­vero, tu stanotte dove dormi?». Dietro quella domanda, c'era l’inferno delle prime ondate migratorie a Torino. Per me e i miei amici, quell’incontro fu un appuntamento con Dio. Decidemmo così di ricavare tra i ruderi dell’Arsena­le una prima accoglienza, ma fin dall’i­nizio non fu per niente facile.

Avevamo ideali, buona volontà, tante persone pronte a coinvolgersi, ma in­contrando gli stranieri che ci chiede­vano aiuto, ci siamo resi conto molto presto che tutto questo non bastava. Ne parlai così con i miei amici, asciu­gando le loro lacrime e anche la loro frustrazione legata alla fatica di entrare in una relazione vera con i nostri ospiti. Mi presi del tempo per capire e decisi di andare nei paesi di origine degli uo­mini e donne che avevamo iniziato ad accogliere. L’incontro con alcuni testi­moni e amici credibili mi aprì gli occhi una volta per tutte.

Mi resi conto che ingenuamente aveva­mo fatto un grande errore: pretendere di accogliere popoli lontani, come se le differenze non esistessero. Pensava­mo bastasse la bontà e la gratuità, non sapendo che alcune culture le conside­rano debolezza. Eravamo convinti che il razzismo riguardasse solo noi italiani, ignorando che a volte riguarda le stes­se comunità straniere. Credevamo nel dialogo incondizionato e continuiamo a crederci ma abbiamo anche imparato che per dialogare bisogna essere in due e che il dialogo vero non può che nascere dalla disponibilità a conoscere l’altro e dalla volontà di mettersi intor­no a un tavolo disponibili a cambiare qualche idea. Ci è venuto incontro così un metodo che nel corso degli anni, a Torino, in Giordania e in Brasile ci ha permesso di accogliere nella dignità e nel rispetto reciproco oltre centomila persone.

Credo che accogliere chi è in diffi­coltà sia un dovere, soprattutto per noi italiani che in passato abbiamo trovato riparo in decine di Paesi del mondo. E ancora oggi, all'estero sia­mo milioni. Credo però che dobbiamo avere il coraggio di mettere da parte una certa idea romantica dell’acco­glienza. Sono convinto che non si pos­sa accogliere senza regole che tuteli­no chi accoglie e chi è accolto, senza mettere in chiaro diritti e doveri, senza l’obiettivo di lavorare insieme per arri­vare alla condivisione di valori comuni.

Alle persone che accogliamo – vale per gli immigrati e per gli italiani – chie­diamo il rispetto fermo di alcune regole comuni che tutelano la convivenza, i diritti degli uni e degli altri e che, oltre al presente, mettono le basi per costruire un futuro possibile insieme. In questa reciprocità di diritti e doveri, tra le altre cose, chiediamo di imparare l’italiano perché la lingua fa entrare nel cuore di un popolo e di una appartenenza co­mune.

Perché chi arriva qui con il desiderio di rimanere in Italia deve imparare a far suoi i valori della nostra Costituzione, il rispetto reciproco, l’uguaglianza tra uomo e donna, la libertà di professare la propria fede, di cambiare religione se la propria coscienza lo impone, la reciprocità di diritti e doveri. Così il ri­conoscimento delle libertà altrui l’idea che se sbagli, infrangi una regola o passi con il rosso, sei chiamato a ri­sponderne in prima persona. L’acco­glienza non può essere improvvisata. Ha senso solo se amata, pensata, co­struita insieme, governata.

Negli Arsenali con il tempo abbiamo imparato cosa significa accogliere: abbiamo creato scuole di italiano, am­bulatori per curare chi non se lo può permettere, percorsi di lavoro, un asilo multietnico per rendere normale sin da piccoli l’integrazione. E i risultati si ve­dono: oggi i nostri ragazzi si sentono italiani a tutti gli effetti, hanno colori e religioni diverse ma hanno imparato a volersi bene, a non discriminare chi ha un colore di pelle, una provenien­za, una fede diversa dalla propria. Semplicemente perché, guidati e ac­compagnati, stanno imparando a cre­scere insieme. Credo che oggi l’unica strada sia quella di un nuovo patto che leghi l’accoglienza alle regole, al bene comune, ma anche alle risposte delle disuguaglianze di casa nostra. Questa è una responsabilità di tutti! Chi non la accetta si mette fuori da solo.

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