Dobbiamo volerci bene

Pubblicato il 25-03-2018

di Marco Grossetti

di Marco Grossetti - Sami è un piccolis­simo esemplare di cucciolo d’uomo, che va sempre in giro cantando in compagnia di un cane alto più o meno quanto lui di nome Ares, come il dio della Guerra. Ha incominciato a venire all’Arsenale della Pace un anno fa, su richiesta del­la scuola che frequenta senza troppo successo. Quando faceva buio ed era ora di tornare a casa, all’inizio Sami scappava e si nascondeva sotto ai ta­voli o alle sedie, si attaccava con tutta la sua forza alle porte ed ai muri, ur­lando nell’ordine che: fa tutto schifo, la guerra è più bella della pace, tutti sono brutti e cattivi, un giorno lui avrebbe distrutto ogni cosa. Altre volte invece si addormentava in un angolo sfinito dal sonno e dalla stanchezza, oppu­re si sedeva con gli occhi rivolti verso il muro dicendo che non sapeva fare niente, mentre tutti attorno a lui gioca­vano e si divertivano.

L’Arsenale della Pace è la seconda casa per tantissimi bambini e come Sami: mamma e papà arrivano da ogni angolo del mondo, loro sono quasi tutti nati in Italia, dove stanno cercando di mettere le radici per poter un giorno avere ali per volare. Per riuscire a sta­re bene insieme, nonostante sia tutto diverso, dalla religione alla cultura, dal colore della pelle alla lingua, un gior­no abbiamo fatto finta di aver trovato un messaggio segreto con sopra le nostre nuove regole, le leggi del cielo. La prima dice che “dobbiamo volerci bene”. Non è una possibilità, qualcosa che può capitare per caso, per sbaglio o per fortuna. Dobbiamo. Lo abbia­mo scritto persino sopra la porta che i bambini usano per giocare a calcio: è la frase che leggono dopo ogni goal, cantano nella filastrocca che sanno tutti a memoria, il messaggio che li ac­coglie quando arrivano con uno zaino pieno di libri, quaderni, paure, attese, speranze. Volere e volersi bene. Pren­dersi cura l’uno dell’altro per colmare reciprocamente vuoti di affetto e di contatto.

Se ci fosse un posto che restituisce alle persone quello a cui hanno di­ritto nascendo, Sami avrebbe un cre­dito d’amore grande come il mondo da riscuotere: un arretrato di coccole e ca­rezze, merende e giocattoli, favole del­la buonanotte e regali di compleanno, da restare bambino tutta la vita. Sami non ha bisogno di essere sgridato, pu­nito, corretto, sarebbe solo la scusa perfetta per continuare ad odiare; sol­tanto ricevere bene in cambio di male può aiutarlo a cambiare. La sua rab­bia e le sue lacrime hanno bisogno di uscire fuori e non di rimanere dentro, di essere chiamate per nome prima ancora che di essere asciugate. Può essere un pianto carico di sconforto, tristezza, odio o sconfitta, ma nessuna lacrima deve andare sprecata fuori dai suoi piccoli occhi.

La sua manina che si agita nel vuoto ha bisogno di trovare una mano forte da stringere per sentirsi al sicuro, solo così quelle lacrime possono trasfor­marsi in un sorriso. Possono bastare cinque minuti o volerci degli anni, ma i sorrisi più belli nascono così. La de­bolezza, l’agitazione e la confusione di un bambino sono la cosa più naturale del mondo. Il problema sarebbe non sbagliare, non arrabbiarsi, non rom­pere niente o non litigare mai. Quello che conta è cosa succede dopo: la rielaborazione e la trasformazione del conflitto in un’occasione di contatto, conoscenza, vicinanza. È per que­sto che ogni giorno ad un certo punto smettiamo di giocare e ci sediamo tutti insieme in unico cerchio. Per chiedere scusa per le cose brutte, dire grazie per quelle belle, riconoscere cosa ci rende felici. Sono solo parole.

Ma sono come una carezza in grado di curare, guarire e rappacificare il pic­colo cuore di un bimbo che si sentiva tradito, offeso, deluso da un altro bam­bino. Sono la base sicura che iniziamo a costruire dentro riconoscendo il bene che qualcuno ci vuole e le cose belle che abbiamo la possibilità di fare, è il nostro modo di sentirci forti sentendo che non siamo mai da soli, ma sempre insieme. Ora quando è il momento di uscire, non c’è più bisogno di prende­re Sami e di staccarlo dai muri e dalle porte, magari ha solo bisogno di qual­che minuto per ricordarsi dove aveva lanciato la giacca e lo zaino.

L’altro giorno ha litigato con un bambi­no, si sono azzuffati. Poi per ritrovare un po’ di calma, ha iniziato a disegna­re. Ha preso un pennarello nero e ha fatto un gigantesco sole triste sotto cui tanti bambini con la faccia arrabbia­ta e il sorriso all’ingiù combattevano. Pagine e pagine piene di esplosioni, odio, distruzione, caos. Poi ha preso un altro foglio e dei colori, ha dise­gnato l’Arsenale della Pace. La guerra era finita. Su un altro foglio ancora, gli stessi bambini dell’inizio ora giocano insieme. Hanno il sorriso all’insù e una bandiera con sopra scritta una sola pa­rola: Pace. Alla fine Sami ha cercato il bambino con cui aveva litigato, non per vendicarsi, ma per chiedere scu­sa, sono andati verso casa mano nella mano.

Guardi questi bambini e ti chiedi da dove prendono la forza. Attorno a loro la guerra e i cattivi ci sono davvero, hanno un nome, delle mani grandi ed una faccia che purtroppo loro hanno imparato a conoscere bene. Scompa­iono dalla loro vita e finiscono dentro una prigione, alzano la voce e le mani davanti ai loro occhi contro le persone che amano, costringono tutta la fami­glia a cambiare religione, si presenta­no a casa nel cuore della notte e se la porta non viene aperta, la sradica­no direttamente dal muro. Eppure loro continuano a credere che il male è fat­to per essere trasformato in bene, che la luce annulla il buio, i cattivi divente­ranno buoni e i ricchi aiuteranno i po­veri, perché almeno un piccolo pezzo di cuore buono in fondo in fondo ce lo devono avere anche loro: basta riusci­re a mettere l’amore anche dentro la sua testa. Un’antica arte giapponese chiamata Kintsugi permetteva di ripa­rare vasi e porcellane che andavano in frantumi con l’oro fuso, facendoli diventare ancora più preziosi di prima, pezzi unici e speciali grazie a cicatrici e ferite finemente decorate. Come l’a­micizia dei bambini, che poco alla volta diventa sempre più forte, anche attra­verso il tempo passato a litigare, divisi dall’orgoglio e dal rancore.

Perché in fondo non dobbiamo volerci bene per forza. Semplicemente, sia­mo stati creati per questo, è la cosa più naturale che possa succedere al nostro cuore. Solo che spesso ce ne dimentichiamo. Volere e volerci bene, anche quando invece tutti attorno ci vogliono e si vogliono male. Senza bisogno di nessuna parola. Ieri uscen­do dall’Arsenale, Sami ha cercato nel vuoto una mano forte da stringere per avere la prova di non essere solo. Ha sentito protezione, affetto, sicurezza. Ha fatto un sorriso dolcissimo e detto solo poche parole: io non andrò mai via, voglio crescere qui. Questa è la mia casa.

Marco Grossetti
NP FOCUS

foto: Max Ferrero

 

 

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