Mi merito questo sacrificio?

Pubblicato il 08-03-2018

di Matteo Spicuglia

di Matteo Spicuglia - Gumaro, Mohamed, Navin e Daphne, giornalisti uccisi in un mondo sempre più veloce.
Gumaro Perez, 34 anni, cronista di nera di Acayucan, città dello Stato messicano di Veracruz. Impossibile mancare alla festa di Natale di suo figlio. Aveva fatto di tutto per organizzarsi, per uscire in tempo dal lavoro e raggiungere la scuola elementare. Mai avrebbe immaginato: proprio durante lo spettacolo, colpi di pistola a raffica. Lasciato così in una pozza di sangue davanti a decine di genitori e bambini. Anche il suo.

Mohamed Ibrahim Gabow, 31 anni, giornalista della TV Kalsan di Mogadiscio. Un volto noto, stimato da tutti, con un punto fermo: raccontare senza paura. Quella mattina stava andando al lavoro, come ogni giorno. Nemmeno il tempo di rendersi conto: un’autobomba mette la parola “fine” a tutto. «Aveva tante speranze e stava per sposarsi, – racconta il suo direttore Abwaan Guure – la Somalia è un Paese pericoloso.
Siamo tutti a rischio. È stato sicuramente ucciso per il suo lavoro». Navin Gupta, 35 anni, cronista dell’ Hindi Daily, giornale dell’Uttar Pradesh, in India. La sua morte è ancora un mistero: cinque pallottole sparate da tre ragazzi in motocicletta, proprio davanti al negozio di famiglia, a Kanpur. Di Navin oggi rimangono solo ricordi e il sorriso di una fotografia.

Daphne Caruana Galizia, 53 anni, giornalista e blogger maltese. Anni di inchieste scomode, senza guardare in faccia nessuno. Minacciata più volte, morirà sulla sua auto fatta saltare in aria, a poca distanza da casa, a Bidnija.
Pochi minuti prima di morire, il suo ultimo post: «Ci sono criminali ovunque, la situazione è disperata».
Gumaro, Mohamed, Navin e Daphne non si conoscevano, vivevano in continenti diversi, ma hanno condiviso lo stesso destino: quello di giornalisti uccisi, perché scomodi, non funzionali al potere di turno, sicuramente liberi. Se ne parla poco, ma è come una strage.

Nell’ultimo anno, ne sono morti 65 in tutto il mondo: 39 assassinati volontariamente, altri 26 uccisi in servizio.
Come l’anno precedente, la Siria si è confermato il Paese più pericoloso con 12 vittime, davanti al Messico (11 giornalisti morti), l’Afghanistan (9), l’Iraq (8) e le Filippine (4). «Nonostante le minacce, – spiega l’associazione Reporter senza Frontiere – continuavano ad indagare e a svelare casi di corruzione e altre vicende riguardanti autorità politiche o gruppi mafiosi. Hanno pagato con la vita le loro inchieste». Oggi il mondo va veloce e tutto si perde, compreso il sacrificio dei singoli.

Ma c’è un valore profondo, uno stimolo-provocazione che vale per tutti. Sicuramente per i giornalisti dalla vita comoda, quelli impigriti, che amano pontificare da dietro una scrivania.
Incapaci o non messi in condizione di sporcarsi le mani sul campo, di verificare ogni cosa che dicono o scrivono, di coltivare sempre e comunque un’onestà intellettuale di fondo.

Tuttavia, la morte di decine di reporter mette al muro anche il pubblico di lettori o ascoltatori, chi non si fa domande, chi si lamenta e basta, chi non ha interesse ad andare oltre un fatto o una ferita, chi non sente l’imperativo morale della conoscenza come risposta alle semplificazioni. Serve tempo per cambiare atteggiamenti e mentalità.
Ma è importante partire da qualcosa, magari da un desiderio, da una domanda senza sconti: «Mi merito queste morti, questo sacrificio?». Non è retorica, solo consapevolezza. Perché un’informazione di qualità esiste anche nella misura in cui viene richiesta, protetta, custodita, vissuta come voce di un sentire comune. Perché, sia chiaro, muore solo chi è lasciato solo.

Matteo Spicuglia
COSE CHE CAPITANO
Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

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