Un Paese nel baratro

Pubblicato il 29-11-2017

di Lucia Capuzzi

di Lucia Capuzzi - L'eterna crisi del Venezuela: emergenza democratica e sociale.
Il 26 ottobre, il Parlamento europeo ha deciso di attribuire il prestigioso premio Sakharov per la libertà di espressione all’opposizione venezuelana. O meglio a quel che ne resta. Il composito fronte anti-chavista vive in queste settimana il momento più drammatico da quando, nel 2008, una pluralità di partiti con differenti programmi e orientamenti si unì nella Mesa de unidad democrática (Mud). Da allora, l’organismo ha sempre avuto una vita travagliata, a causa delle divergenze interne. Mai prima d’ora, però, la spaccatura era apparsa tanto evidente. Il punto di non ritorno si è raggiunto, però, con il voto regionale del 15 ottobre. La Mud le ha perse, riuscendo a far eleggere cinque governatori su ventitrè. Ovvero Laidy Gómez, nel Táchira, Ramón Guevara, nel Mérida, Alfredo Díaz, nel Nueva Esparta, Antonio Barreto Sira, nell’Anzoátegui e Juan Pablo Guanipa, nel Zulia. Ai designati, il governo ha chiesto di giurare fedeltà alla controversa Costituente, non riconosciuta dall’opposizione e da diversi Paesi del mondo.

Immediatamente, la Mud ha respinto la proposta, sostenendo che nessuno dei “suoi” governatori l’avrebbe accettata. Peccato che, poco dopo, sia stata smentita da quattro su cinque di loro. Con l’eccezione di Guanipa, gli altri – tutti del partito Acción democrática –, martedì, hanno adempiuto alla richiesta chavista. Ormai è scontro aperto tra il leader della Mud, Henrique Capriles, e il rappresentante di Acción democrática, Henry Ramos Allup. E il conflitto rischia di disgregare la coalizione mentre si avvicinano le presidenziali di fine 2018. La scelta europea ha, in ogni caso, voluto l’attirare l’attenzione sulla lunga crisi venezuelana. Di cui l’ondata di proteste tra aprile e luglio – costate la vita ad almeno 120 persone – è solo la punta dell’iceberg. I problemi hanno cominciato a manifestarsi nell’ultima fase dell’era di Hugo Chávez, l’ex parà che nel 1998 è riuscito a diventare presidente, presentandosi come “l’uomo nuovo”, nel momento del crollo della democrazia consociativa venezuelana che prevedeva una spartizione del potere fra i due principali partiti, entrambi prodotto dell’élite. Un meccanismo incapace di garantire i diritti fondamentali, civili e sociali, della maggior parte dei cittadini.

Chávez, dunque, non ha incontrato grande resistenza nel demolire il “vecchio sistema”. Le sue riforme – dalla possibilità di rielezione indefinita, alla creazione di poteri paralleli in ambito poliziesco, sindacale, politico, a quelli tradizionali – hanno reso le istituzioni vuoti simulacri. In cambio, però, con il prezzo dell’oro nero alle stelle, Chávez ha garantito sussidi alla gran parte di popolazione dimenticata nei decenni precedenti. Le “misiones”, campagne di aiuto governativo sono riuscite a ridurre la povertà di venti punti percentuali e a dimezzare l’analfabetismo.

Garantendo, al contempo, al presidente la fedeltà incondizionata dei beneficiari, cioè una quota consistente della popolazione. Parallelamente, ha ampliato la macchina amministrativa, facendo lievitare la corruzione. La capacità produttiva si è contratta, costringendo il Paese a importare praticamente tutto, dal cibo ai manufatti.
Poco male fin quando c’era stato l’oro nero con cui fare acquisti. Dal 2013, però, il prezzo del greggio ha cominciato a calare. Ora un barile vale cinquanta dollari, meno della metà del valore avuto nell’età dell’oro del chavismo.
Un colpo basso per qualunque Paese petrolifero. Nel caso venezuelano – in cui la diversificazione è quasi inesistente – si è trattato di un ferita letale per l’economia e l’impalcatura politica da essa sostenuta. La mancanza di liquidità ha costretto il governo a ridurre le importazioni. Dato che la produzione nazionale è alquanto dissestata, nei negozi hanno cominciato a scarseggiare i beni di prima necessità.

Fino all’attuale semi-assenza di cibo e medicine. Mentre il prezzo dei pochi articoli disponibili è salito alle stelle. Per l’anno in corso, il Fondo monetario internazionale (Fmi) prevede un’inflazione di oltre 1.600 per cento. La situazione sociale è disperata: tutti, tranne una sparuta élite che accede ai dollari controllati dall’esecutivo, sono costretti a code estenuanti per procurarsi gli alimenti base. Gli ospedali pubblici rimandano i pazienti a casa per l’impossibilità di curarli data l’assenza di medicine, cotone, aghi sterili, sutura.

Dal 6 dicembre 2015, quando alle politiche l’opposizione ha ottenuto la maggioranza in Parlamento, nel Paese, inoltre, s’è scatenata una “guerra civile istituzionale a bassa intensità”.
Lo scontro fra i due poteri – esecutivo e legislativo – è stato costante. Le leggi approvate dall’Assemblea sono state sistematicamente invalidate dalla Corte Suprema, fedele al presidente.
Mentre i parlamentari hanno più volte cercato di sottoporre Maduro (foto) alla procedura di impeachment. Alla fine, lo scorso 30 luglio, nonostante le proteste, il governo ha insediato una nuova Costituente, che ha esautorato il Parlamento. Nonostante questo il suo governo traballa ma non cade. Almeno per ora. A che cosa si deve una simile resistenza?

Secondo il politologo statunitense Steven Levitsky, il paradosso venezuelano consiste nel fatto che il chavismo è troppo autoritario per convivere con istituzioni democratiche. Al contempo, però, esso è troppo debole per poterle abolire senza collassare. La battaglia, dunque, va avanti con estenuanti tira e molla. A spese della popolazione. E la debolezza dell’istituzioni aiuta a prolungarla.

Lucia Capuzzi
LATINOS
Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok