Vite a rischio

Pubblicato il 13-03-2017

di Lucia Capuzzi

di Lucia Capuzzi - Quando, nel 2005, fu insignito del premio Goldman per la difesa dell’ambiente, l’indigeno Isidro Baldenegro López, decise di dedicare il prestigioso riconoscimento al padre Julio. Quest’ultimo lottò per tutta la vita per la protezione dei boschi della Sierra Tarahumara, nel nord del Messico. Proprio come Isidro. Per tale ragione, fu assassinato a colpi di pistola, nel 1986. La stessa sorte è toccata al figlio. Domenica 15 gennaio, Isidro Baldenegro è stato crivellato di proiettili vicino alla comunità di Coloradas de la Virgen. Il corpo è stato trovato, però, solo il mercoledì successivo. L’indigeno, 51 anni, si batteva contro il taglio di alberi nella Tarahumara da parte dei cacciatori di legname pregiato.

Nel 1993, fondò Fuerza ambiental, movimento di resistenza non violenta alla deforestazione selvaggia dei territori indigeni, principale causa delle continue siccità e carestie che colpiscono la regione. Meno di dieci anni dopo, nel 2002, dopo una serie di scioperi e manifestazioni, Fuerza ambiental obbligò il governo a proibire, almeno temporaneamente, il taglio degli alberi. Da allora, la persecuzione nei suoi confronti si fece più intensa. Prima l’arresto, senza prove, per possesso di droga.

Poi, le minacce di morte che avevano costretto Baldenegro ad abbandonare la comunità di Coloradas de la Virgen. La stessa dove era tornato per trovare i parenti un fine settimana di gennaio. I sicari lo attendevano. E l’hanno ucciso. Isidro è l’ultimo di una lunga serie di ecologisti assassinati in America Latina, il continente più letale per chi difende la casa comune. Trentatré nel solo Messico tra il 2010 e il 2015, secondo l’Ong Global Witness. Baldenegro, inoltre, è il secondo vincitore del Golman ad essere ucciso, dopo l’honduregna Berta Cáceres, massacrata il 3 marzo 2016. Segno che nemmeno la notorietà internazionale, riesce più a proteggere gli attivisti. In gioco ci sono miliardi di dollari. Specie ora che la fame di risorse s’è fatta drammatica.

Anno dopo anno, si allunga, così, la tragica lista degli ambientalisti assassinati. Nel 2015 sono stati 185, secondo la Ong Global Witness. L’anno precedente erano stati 116. La cifra reale, data la forte censura in alcuni Stati, potrebbe essere ancora maggiore. Quasi il 70 per cento degli omicidi è avvenuto in America Latina. Nel solo Brasile, il più pericoloso in assoluto per i difensori dell’ecologia, le vittime sono state cinquanta. In pratica, un terzo del totale degli omicidi. La quasi totalità delle morti si è concentrata negli Stati di Maranhão, Pará e Rondônia, dove mai come prima è cresciuta la pressione dei latifondisti per occupare le terre delle comunità contadine e native.

In pratica, l’Amazzonia è campo di battaglia tra chi vuole espandere le monoculture e chi cerca di difendere i propri territori. Le recenti misure del governo di Michel Temer per attenuare la protezione delle zone a maggioranza indigena per favorire i grandi proprietari – fondamentali per sostenere la maggioranza – rischia di aumentare ulteriormente la tensione. Sotto il Brasile, si trova l’unico Paese non latino ai vertici dell’elenco di Global Witness: le Filippine, con 33 omicidi. In Colombia – dove sono stati uccisi 26 ecologisti – la principale minaccia è rappresentata dai nuovi paramilitari, nati dopo lo scioglimento delle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc).

Le cosiddette Bacrim si oppongono al processo di restituzione delle terre espropriate dai gruppi armati agli sfollati interni e incamerati dai latifondisti locali. A questo si aggiunge l’espansione delle miniere d’oro clandestine – legate sempre alle formazioni illegali –: un giro d’affari redditizio quanto inquinante. Sempre il prezioso metallo e l’ansia delle multinazionali straniere, in particolare canadesi, di sfruttarlo con miniere a cielo aperto è causa di violenza contro gli ambientalisti in Guatemala, con dieci morti. Mentre in Perù – dodici delitti –, la lotta si concentra principalmente contro il lucroso traffico di legname. In Honduras – con otto vittime, il dato più alto in rapporto alla popolazione –, l’epicentro del conflitto ruota intorno alle grandi dighe. E alla pressione che queste ultime determinano sulle comunità indigene. Come dimostra la storia di Berta Cáceres, appena premiata con il Goldman per l’ambiente 2015.

“Mi seguono ovunque, mi hanno minacciato di rapire me e la mia famiglia”, ha raccontato Berta che, nel 2013, ha visto morire tre compagni di lotta contro la diga di Agua Zarca, sul fiume Gualcarque. Il gigantesco invaso taglierebbe i rifornimenti a centinaia di famiglie di etnia Lenca, situate sulle rive del corso d’acqua e da quest’ultimo dipendenti. Il profondo legame tra habitat naturale, terra e popoli indios produce un’inquietante conseguenza: 67 vittime – il 40 per cento degli attivisti assassinati l’anno scorso – erano nativi. In questo caso, è molto probabile che il numero sia maggiore.

Molto spesso le comunità non denunciano nel timore di rappresaglie. Se lo sfruttamento economico delle risorse ambientali è la radice della violenza, il suo motore è l’impunità. Dei 908 crimini registrati in 35 Paesi tra il 2002 e il 2013, meno del 10 per cento è stato risolto. Anzi, Global Witness mette in luce una crescente tendenza degli Stati a criminalizzare la protesta delle organizzazioni ambientaliste con leggi ad hoc. La quasi totalità degli ecologisti morti, inoltre, aveva subito ripetute minacce di morte. “Anche Dorothy Stang era stata intimidita – racconta dom Erwin Krautler, vescovo emerito di Xingu e amico della religiosa statunitense massacrata il 12 febbraio 1988 –. E lei lo sapeva.

Ne abbiamo parlato dieci giorni prima della sua morte. Prima ha scherzato, dicendo: I sicari non avranno il coraggio di far del male a una vecchia. Poi è diventata seria e ha aggiunto: Ho fiducia in Dio e so che mi starà sempre accanto. Preferisco concentrarmi sulla vita invece di pensare alla morte”. Una frase in linea con il comportamento della suora di fronte ai suoi assassini. Quella mattina di febbraio, dopo aver mostrato loro la sua arma: la Bibbia e aver letto le Beatitudini, suor Dorothy ha salutato i killer e li ha benedetti. Poi, sono arrivati gli spari e il corpo è caduto fra terra e foresta.

Lucia Capuzzi
LATINOS
Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

 

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