La trappola della paura

Pubblicato il 09-10-2016

di Luca Jahier

Di Luca Jahier* - Per chi vive lo spazio europeo come una grande scommessa di pace, progresso, giustizia sociale, solidarietà, questi ultimi anni non sono certo fonte di entusiasmo. Anzi, nessuno avrebbe mai creduto che fosse possibile: spara sui migranti, costruisci muri e reti di filo spinato, insulta i lavoratori migranti provenienti da altri paesi europei e riduci i loro diritti, accusa di ogni male e responsabilità le Istituzioni europee, e in molti casi hai vinto la lotteria delle prossime elezioni. È quanto sta avvenendo in molti Paesi europei, dove ad ogni tornata si affermano in modo sempre più esteso partiti e movimenti populisti, a volte anche xenofobi, che fanno della divisione e della separazione il proprio programma principale, che alimentano le ragioni dell’odio verso gli altri cercando di lucrare sulle paure.

Paure che crescono perché trovano il loro fondamento in una crisi economica che perdura da troppi anni, con sacche di disoccupazione e povertà che restano stabili e talora anche crescono, con inedite divergenze di sviluppo e prospettiva tra le regioni dell’Europa, la crescita delle tensioni internazionali, che vedono quasi tutti i confini dell’Europa in situazione di conflitto anche armato, con un ritorno del protezionismo economico e infine con il rischio radicalizzazione di nicchie delle nostre società e del terrorismo anche in seno al territorio europeo, quasi un prolungamento del mai concluso 11 settembre. Certo l’Europa appare sempre più sull’orlo di una crisi di nervi, quasi orientata verso un baratro evidente, in ogni modo più luogo di divisioni e veti all’operatività comune, che ricerca di convergenze e soluzioni condivise.

Il caso delle politiche di immigrazione prima e della crisi dei rifugiati poi è forse il più emblematico di questa situazione. Da un lato l’apparente impreparazione al fenomeno dirompente delle fughe di chi è perseguitato, soprattutto in situazioni di guerra, malgrado le cifre delle Nazioni Unite siano tutte sul tavolo da tempo. La crescita del 50% dei profughi registrata negli ultimi anni, fino ad una cifra complessiva di 60 milioni di persone ritenute tali è enorme al confronto dei 3 milioni che negli ultimi anni hanno preso la rotta europea. Se si considera poi che i 10 Paesi al mondo con il più alto numero di profughi sono tutti non europei … Dei profughi fuggiti dalla Siria (oltre 5 milioni) il 47% è in Turchia, il 27% in Libano (1/4 della popolazione), il 16% in Giordania e solo il 3% ha preso la rotta europea, principalmente attraverso i Balcani e la Grecia. Anche se l’Europa resta l’unico luogo del mondo non confinante con la Siria ad avere accolto oltre un milioni di profughi siriani, mentre Australia, USA, Canada e Giappone, che talora indichiamo come esempi, non ne hanno accolti più di 40.000… Come è stato possibile allora che un continente comunque ricco come l’Europa abbia trasformato un problema comunque serio, in una crisi sistemica e simbolica così grave, tanto da essere tra le questioni più dibattute dalle opinioni pubbliche, tema in cima a quasi ogni vertice europeo degli ultimi tre anni? Riuscendo alfine a trovare alcune soluzioni tampone, talune anche peraltro discutibili come l’accordo con la Turchia, ma senza essere ancora riusciti ad affrontare con lungimiranza la questione sistemica di una revisione del Regolamento di Dublino, di strategie di lungo termine di accoglienza, redistribuzione e integrazione di tali profughi, di strategie di pacificazione delle regioni in guerra, di incremento dell’aiuto e dei sostegni sia alle organizzazioni internazionali che ai paesi limitrofi alle zone di conflitto. Come è possibile che questo accada in Europa, in un continente dove nel 1951 si scrisse la Convenzione di Ginevra per i rifugiati, che stabiliva un diritto internazionalmente garantito per tutti coloro che fuggono guerre e persecuzioni di essere accolti e protetti. Un diritto prima riservato ai milioni di europei profughi frutto della guerra mondiale e della divisione in blocchi, poi esteso ai provenienti dal mondo intero nel 1967, con la ratifica ad oggi di 147 Paesi.

Dobbiamo forse pensare che l’Europa abbia perso la sua anima? Oppure che rischi piuttosto di perdere la sua bussola. Certo è che l’anima dell’Europa, i suoi valori fondanti sono messi a dura prova, anche se essi continuano ad essere praticati dall’opera straordinaria di tutti coloro che si adoperano per la salvezza, la protezione e l’accoglienza di tali uomini donne e bambini in fuga e in cerca di futuro. Siano essi volontari e organizzazioni umanitarie ed ecclesiali, comunità locali, forze dell’ordine e forze navali dispiegate nel Mediterraneo, azione solidale e coerente messa in campo tutt’ora da molti governi (Svezia, Germania, Italia e Grecia per non citarne che alcuni). Un capitale importante, che riesce ancora a dare sostanza a quel “Mai più” generato dagli orrori della seconda guerra mondiale e che continua, pur se a fatica ad alimentare l’azione di molti.

Ma tutto ciò non basta, se non trova sostanza un doppio e più profondo impegno. L’uno su quell’approccio sistemico di cui dicevamo prima, che comprenda che l’incremento dei profughi che fuggono guerre e persecuzioni è un fenomeno strutturale di una nuova epoca di caos a livello internazionale e l’incremento generatosi sin dalla metà degli anni ‘80 è destinato a durare. Così come comprenda che per gli squilibri demografici tra Europa e altre regioni del mondo, come anche per le divaricazioni in termini di progresso, flussi di migrazione continueranno ad esistere, anche per la semplice ragione della domanda del mercato del lavoro da un lato e della ricerca di nuove possibilità di futuro dall’altro. Così come a questi due fenomeni potranno presto aggiungersi nuovi movimenti di popolazione, legati ai cambiamenti climatici (le stime più prudenti parlano di 200 milioni di persone nel mondo, certo in gran parte distanti dall’Europa). Il secondo e forse anche il più importante è il necessario cambio nella narrazione in tema di mobilità delle persone, siano esse lavoratori di un altro Stato europeo, migranti economici o profughi, ciascuno con i suoi diritti e le sue specificità. Non sono una fonte di crisi e neppure una sfida al nostro benessere cui dobbiamo far fronte per dovere. Sono una straordinaria opportunità, già oggi. Nella sola Italia, il 9% delle imprese sono fondate e dirette da stranieri. In Italia, il numero di occupati regolari stranieri rappresenta ormai il 10% del totale degli occupati, che versano contributi previdenziali per oltre 10 miliardi di lire all’anno, di cui spesso in buona parte non fruiscono. Sui 5 milioni di stranieri residenti in Italia, 3,5% milioni risultano essere contribuenti regolari, sia in quanto lavoratori, che imprenditori. Si può dire senza timore alcuno che complessivamente gli immigrati danno un contributo a saldo positivo alle nostre economie, ai nostri sistemi di assistenza e sicurezza sociale, a costi peraltro assai contenuti. Certo non va tutto bene, sfide nuove per l’integrazione urbana, per la gestione delle diversità e per il buon funzionamento delle scuole e degli equilibri sociali in tante comunità e quartieri delle nostre città sono il pane quotidiano del lavoro e della fatica di molti. Ma si tratta di un altro sguardo capace di alimentare ragioni di speranza e di incontro e non di odio e divisione, che alla fine impoverisce tutti.

Un approccio che può e deve valere anche per tutte le altre grandi sfide che le società europee e l’insieme delle nostre istituzioni devono oggi affrontare, perché non prevalgano le ragioni dello scontro, ma quelle della comprensione, del lavoro comune e della solidarietà che costruisce. Partendo dalle risposte concrete che i cittadini attendono, cosi ben sintetizzate dall’Eurobarometro. Oltre il 60% dei cittadini chiede un’azione europea più incisiva in questi nove capitali: terrorismo (82%), disoccupazione, frode fiscale, migrazione, protezione delle frontiere esterne, democrazia e pace nel mondo, ambiente, sicurezza e difesa, salute e sicurezza sociale (63%). Poi vi è la necessità di guardare più a lungo termine, per dare futuro all’Europa tra 20 anni. In questo la concreta agenda dell’Unione dell’Energia che può essere leva di cambiamento, progresso, occupazione e sicurezza immensi; l’esigenza del rilancio e raddoppio del piano Juncker finalizzato a concreti progetti europei; l’investimento sui giovani anche attraverso il rafforzamento di progetti a loro dedicati (Garanzia giovani, Erasmus, servizio civile europeo); le sfide poste all’economia, al lavoro e alla società tutta dalla trasformazione digitale e la necessità di nuove politiche industriali, sociali e di coesione che le accompagnino.

Senza dimenticare l’esigenza di riformare e rendere più solida l’architettura istituzionale dell’UE (su cui sta lavorando il Parlamento europeo) e la nuova sfida della proiezione esterna dell’UE.

Si può dunque essere impressionati dalla vastità del cantiere ed assumere la concreta umiltà di fare ciascuno la propria parte per il suo successo. Coscienti che solo una rinnovata e convergente forza della società civile potrà sostenere un tale sforzo. E che tutto questo richiede anche una nuova narrazione, che significa ricorrere alla grande energia della cultura quale fonte di rinascita e coltivare uno sguardo amorevole e di fiducia nei confronti del tempo che stiamo vivendo.

Perché l’Europa ha bisogno di un nuovo Rinascimento e questo tocca a ciascuno.



*Presidente Gruppo III Comitato Economico e Sociale Europeo.

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok