Violenza e sfruttamento in miniera

Pubblicato il 01-06-2016

di Federica Vairo

di Federica Vairo - Nella regione dei Grandi Laghi due congiunture potenzialmente esplosive si vanno delineando all’orizzonte. La prima nella Repubblica Democratica del Congo per le tensioni provocate dalla nuova certa candidatura del presidente Kabila (foto). La seconda in Burundi, dove la rielezione per il terzo mandato di Pierre Nkurunziza alla presidenza ha fatto precipitare il Paese in un ciclo critico di violenze e in una crisi politica senza fine. Un clima che secondo molte organizzazioni di difesa dei diritti umani ricorda i mesi che hanno preceduto il genocidio dei Tutsi in Rwanda nel 1994. Come la storia di questa regione insegna, l’influenza esercitata dagli eventi di un Paese determina le sorti dell’intera zona: il rischio che le tensioni possano precipitare, trascinando i Grandi Laghi in un vortice di massacri e violenze, seguendo un copione già più volte rappresentato, è concreto.

In questo scenario la popolazione giovanile occupa da lungo tempo un ruolo centrale all’interno delle milizie ribelli di varia natura attive nel conflitto armato della regione dei Grandi Laghi. La natura del contesto socioeconomico e la vulnerabilità delle circostanze individuali, interagendo, innescano quei fattori di rischio che rendono i giovani particolarmente vulnerabili all’arruolamento nelle forze armate e nei gruppi di ribelli.
L’impoverimento delle società e le divisioni interne alle comunità rappresentano una vera e propria polveriera all’interno della quale i giovani non trovano alcuna possibilità di emergere, di trovare un impiego o di aspirare al raggiungimento di uno status sociale riconosciuto. A partire dagli anni Novanta sino ad oggi, molti giovani, adolescenti e bambini, si sono arruolati volontariamente, spinti dalle avverse condizioni esistenziali vissute nei panni da civili. In territori nei quali l’insegnamento è in rovina, le possibilità di impiego per i giovani sono pressoché inesistenti, le doti impossibili da finanziare e l’aspettativa di vita tra le più basse al mondo. Oltre ad elargire guadagni, la guerra può dare anche un senso alle esistenze dei giovani che intravedono in essa la possibilità di seguire un ideale e intraprendere una scalata sociale per l’acquisizione di una posizione riconosciuta all’interno delle comunità. È evidente che le croniche difficoltà incontrate dai giovani e le loro relative risposte, assumono chiare implicazioni politiche. Il loro numero, la loro disponibilità e la loro impazienza nell’ottenere un’occupazione all’interno della società che consenta di alleviare la persistente condizione di povertà e inerzia, rende i giovani facilmente esposti al reclutamento da parte di gruppi armati o di reti criminali. Il sistema educativo, inoltre, è sotto finanziato e i tassi di abbandono del sistema scolastico sono in continuo aumento. In particolare, nelle regioni del Kivu il numero di bambini di strada è notevolmente aumentato tanto a Bukavu quanto a Goma. Sono proprio questi i bambini e gli adolescenti maggiormente esposti alle seduzioni della prospettiva militare: a centinaia entrano, così, a far parte delle milizie che operano nelle regioni orientali, arruolandosi.

In particolar modo a partire dalla seconda fase della Grande guerra congolese (scoppiata nel 1997, ufficialmente finita nei primi anni Duemila, in realtà ancora in corso sotto forma di innumerevoli micro conflitti) e dall’esplosione del boom del coltan nel Kivu settentrionale e meridionale all’inizio degli anni Duemila, l’unica attività redditizia ha trovato collocazione nel contesto minerario, provocando l’abbandono di massa delle scuole e dell’impegno famigliare nei campi, gravemente danneggiati anche dalla controversa legge Bakajka degli anni Settanta che condanna i giovani ad essere una jeunesse dépossédée, una gioventù diseredata. D’altro canto, persino molti docenti, piegati dalla continua mancanza di salari e dal quasi inesistente riconoscimento sociale da parte dello Stato, hanno abbandonato le cattedre per cercare impiego nei siti minerari.

Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila l’economia informale lascia, così, il passo ad un’economia militare. L’estrema violenza diviene fenomeno comune con il conseguente cambiamento di prospettiva anche da parte dei giovani. La situazione giovanile si mostra drammatica in particolare nella regione del Nord del Kivu, una realtà nella quale spesso i giovani militari si affermano come protagonisti della complessa e cruenta quotidianità del territorio.

Rubrica di Nuovo Progetto

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