Stare piuttosto che fare

Pubblicato il 15-05-2013

di Matteo Spicuglia

di Matteo Spicuglia - La storia di Saliba e della sua famiglia. Una vita in Svizzera e la scelta di tornare in patria per testimoniare la fede di un popolo.

La vita è imprevedibile. A volte, ti fa fare giri immensi per poi tornare lì, da dove sei partito. Stesse strade, stessi paesaggi, ma tu sei diverso, più consapevole, più fiero. Il viaggio di Saliba Erdan è cominciato tanti anni fa a Bsorino, un piccolo villaggio al confine tra Siria e Turchia. Un puntino di Tur Abdin, la regione che accoglie da sempre il popolo degli aramei, minoranza cristiana tra le più antiche del Medio Oriente. Bsorino era un villaggio di contadini: la vita dei campi, la cura degli animali, un pugno di casupole costruite intorno alla chiesa.

Le tragedie del ‘900 sono passate anche da qui. A inizio secolo, in paese vivevano 200 famiglie aramee, oggi sono una decina. Gli equilibri sono saltati per sempre con i massacri del 1915, la convivenza difficile con la maggioranza curda, le tensioni legate alla guerra tra governo di Ankara e Pkk. A Bsorino svetta ancora il fortino da cui i militari turchi perlustravano tutta la piana. Negli ultimi 40 anni, chi è riuscito a scappare si è lasciato tutto alle spalle. Gli aramei si sono rifugiati negli Stati Uniti, in Australia, in Europa. Anche Saliba lo ha fatto. Agli inizi degli anni ‘80 si è costruito una nuova vita in Svizzera, con la moglie Sara. È lì che sono nati i suoi tre figli, è lì che ha cominciato a lavorare come operaio, è lì che ormai immaginava un futuro. Vita in famiglia, ma anche il servizio mai interrotto nella comunità della diaspora, lo studio della teologia tra un impegno e l’altro.

L’imprevisto bussa alla porta nel 2004. L’anziano parroco di Bsorino muore e a Tur Abdin non c’è nessuno che può sostituirlo. Da queste parti, i sacerdoti sono pochi, come i cristiani: chiese e monasteri antichissimi sono rimasti senza popolo. Ogni anziano che muore – consacrato o laico – è un pezzo di identità che sparisce. È per questo che a Tur Abdin oggi è più importante stare, piuttosto che fare. Saliba lo sa benissimo, come tutti gli aramei. E non si è stupito quando la sua comunità gli ha chiesto di cambiare vita. Un’altra volta. “Te la senti di diventare tu il nuovo parroco del villaggio?”. Saliba si è preso del tempo per pensarci. Nella sua Chiesa, la Chiesa siro ortodossa, anche gli uomini sposati possono diventare sacerdoti. Ma accettare significava lasciare le comodità dell’Occidente, emigrare al contrario, per tornare lì dove oggi non c’è più niente. Saliba ci ha pensato, non è stato facile, ma alla fine ha detto sì.

Non avrei mai immaginato una cosa del genere – racconta oggi Saliba –, ma ho cambiato volentieri i miei programmi. Con una grande serenità e consapevolezza. Sono sempre stato convinto che un prete da solo non possa tenere in piedi una comunità. Ogni credente ha una responsabilità e può fare del bene. Prete o no, io avevo in mente solamente di fare qualcosa per il villaggio e il mio popolo”.

Oggi Saliba vive con la moglie Sarah e il figlio più grande Stefan, 22 anni, in una casa a due piani alle porte del villaggio. I figli più piccoli studiano ancora in Svizzera e Germania: lontani, ma sempre nella testa e nel cuore. Una famiglia semplice che oggi dedica tutte le sue giornate a servizio della comunità: Saliba guida la preghiera due volte al giorno, gira come una trottola dove lo chiamano, per non lasciare solo nemmeno un arameo. Sarah invece lo aspetta a Bsorino, è un punto di riferimento in paese. La loro casa è aperta ai pochi aramei rimasti: una parola, la condivisione dei gesti, delle tradizioni. Spesso, le donne del villaggio cucinano insieme i piatti poveri di carne e verdura, i kutlé, gli involtini di grano. È un modo per sentirsi uniti, in fondo la cosa più importante. Del resto, a Bsorino non c’è nulla: niente negozi, nessuna strada asfaltata, solo silenzio, sentieri di polvere, le aie delle case di pietra.

La Svizzera è davvero un altro mondo. Quando ci pensa, Saliba sorride. “A Bsorino non c’è niente e la situazione è quella che è”, lo dice a parole e con due occhi azzurri che sanno guardare lontano. “Sapevo cosa avrei trovato al villaggio: la vita è cambiata, affrontiamo tante scomodità, ma se nessuno di noi rischia, se nessuno di noi accetta di tornare, se non facciamo dei sacrifici, non riusciremo mai a costruire qualcosa nel futuro. Noi vogliamo risvegliare il nostro popolo, vogliamo che gli aramei tornino nella loro terra. Cosa avrei potuto fare se fossi rimasto in Svizzera? Niente”.

Saliba ha davanti esempi di fede e di coraggio, quelli di chi non ha mai voluto lasciare queste terre, di chi oggi nonostante tutto rimane attaccato alle radici. La figura più commovente è il suocero, padre Melke Tok, anche lui un prete, scomparso da poco. Nel 1994 fu rapito da estremisti curdi che tentarono di convertirlo. Invano. “Lo avevano preso e nascosto in una buca; – racconta Saliba - praticamente è stato sepolto vivo per quattro giorni. Era debolissimo. È riuscito a salvarsi solo quando una famiglia curda ha accettato di aiutarlo. Lo hanno nascosto in casa per qualche giorno e poi per fortuna lo hanno consegnato ai militari”.

Tur Abdin conserva in segreto decine di storie come queste. Anche oggi, essere una minoranza è difficilissimo. Trovi ostacoli ovunque, in qualche modo paghi il prezzo della tua diversità. Stefan, per esempio, ha una ditta di mezzi movimento terra. Ha raggiunto i genitori dopo il servizio militare in Svizzera. È contento di vivere nel villaggio dei suoi nonni, ma è una lotta: il lavoro arriva solo dalla comunità, la burocrazia a volte è opprimente, puoi aspettare anche giorni per un timbro o un’autorizzazione. Ma c’è di più. Dal terrazzo di casa, in lontananza si vedono bene le terre di famiglia, l'unico mezzo di sussistenza per gli aramei. Qualcuno le ha bruciate, giusto una manciata di giorni prima del raccolto. Le fiamme si sono levate alte nella notte di Bsorino e nessuno sa chi è stato. Saliba non ne vuole parlare, non può parlarne. Abbassa lo sguardo, ma la cenere fa capire tutto. “Come minoranza ci portiamo dentro una grande tristezza; – spiega Saliba – con sentimenti simili, non abbiamo la forza di fare quello che vorremmo. Ci sentiamo un po' schiacciati, quasi rassegnati. E poi, non c'è nessuno che ci aiuta. Non abbiamo quel coraggio che può essere utile per rivendicare i nostri diritti. Ci manca l'entusiasmo e la rassegnazione non aiuta”.

Detto questo, Saliba rifarebbe tutto. È tornato a Bsorino non per cercare onori, posti o responsabilità di primo piano, ma per qualcosa di più grande. Lui e la sua famiglia sanno bene per chi stanno facendo sacrifici: per il Dio in cui credono, per una fede da testimoniare e tenere viva, per gli altri aramei che non hanno il coraggio di tornare.

Noi non possiamo obbligare nessuno a farlo, al massimo possiamo cercare di convincere. Penso soprattutto ai giovani: possono provare, solo dopo potranno dire se ne è valsa la pena. Se lo faranno, Tur Abdin avrà ancora un futuro, potremo mettere nuove radici nella nostra patria e il domani ci permetterà di costruire qualcosa di meglio”.

Saliba ci crede. La fede lo ha fatto camminare su sentieri stretti, ma in fondo è questo lo stile di un cristiano. Chissà se questo sacrificio porterà a qualcosa, se altri seguiranno l’esempio, se la cultura e la fede degli aramei tra 50 anni saranno ancora presenti in questi luoghi sconfinati. Chi può dirlo, chi può prevederlo? La storia rema contro, il ‘900 ha mostrato implacabile che il volto e la vita di una terra possono cambiare e perdersi per sempre. Ma non importa. Esserci è già qualcosa, il segno di una disponibilità, di un ideale rincorso ovunque. La speranza oggi a Bsorino non è nei numeri. Sarebbe ridicolo. La speranza è in una chiesa sempre aperta. In una campana che suona ogni giorno alle cinque. E ricorda cosa è stato e cosa vuole essere ancora Tur Abdin.

Speciale - La fede ha una mano in più 3/6

L’uomo e Dio, l’Occidente e la fede, l’indifferenza che si fa spazio specie tra i giovani. Ma le statistiche non rendono ragione ad una sete di Dio che continua ad esistere. C’è un vissuto di fede che scorre attraverso mille rivoli. In ogni angolo del mondo, in ogni piega del cuore, nonostante tutto. Percorsi di fede reali, concreti. Oggi, come ieri, possibili.

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