Da oppressi ad oppressori

Pubblicato il 06-02-2013

di Aldo Maria Valli

di Aldo Maria Valli -  In Lettonia, discriminazione e diritti negati verso chi ha origini russe. Alle origini di un problema antico.
Nell’Europa che ha abolito i confini interni e ha fatto dell’unità la sua principale aspirazione, c’è una popolazione che è straniera in casa propria, discriminata in base a un colore. Non quello della pelle, ma quello del passaporto.

Per raccontare questa storia sotto molti aspetti incredibile dobbiamo andare in Lettonia, dove su due milioni e mezzo di abitanti, ce ne sono circa trecentomila, o forse più, che vivono in un limbo, privi di numerosi diritti fondamentali. Sono i nepilson, ovvero i non-cittadini. Mentre il passaporto dei lettoni è verde, il loro è di un colore violaceo che equivale ormai a un marchio di infamia. Essere nepilson vuol dire non poter votare né essere eletto, non poter uscire dal Paese senza un visto difficilissimo da ottenere, non poter svolgere molti lavori (per esempio la guardia giurata) e non poter accedere alle carriere di avvocato, giudice e agente di polizia.
Gli alieni, come sono anche chiamati, sono il frutto di una discriminazione etnica che è a sua volta il risultato della disgregazione dell’Unione Sovietica. Sono i cittadini lettoni di etnia russa, in molti casi arrivati qui perché emigrati, ma in molti altri casi, ormai, nati in Lettonia, perché figli degli emigrati.

Il problema nasce nel 1991, quando la Lettonia si ribella alla dominazione sovietica. Dopo quasi mezzo secolo di sottomissione, i lettoni finalmente possono riottenere la libertà. Ma nel Paese vivono numerosi cittadini di etnia e di lingua russa, ed è proprio contro di loro che si innesca la discriminazione, frutto di un atavico risentimento. A questa minoranza non viene riconosciuta la pienezza dei diritti, e a nulla valgono le proteste. Un po’ perché impegnati su altri fronti (ricostruire il Paese, organizzare le basi della democrazia, dar vita a un’economia di mercato) e un po’ perché frenati dalla paura, dal pregiudizio e da un malcelato spirito di vendetta, i lettoni di etnia non russa rimandano continuamente la soluzione della questione. E oggi, quando si chiede loro perché non vogliano riconoscere i nepilson come cittadini con pari dignità e uguali diritti, la risposta che spesso si ottiene è la seguente: “Ci hanno oppresso per troppo tempo. Non ci fidiamo. Non parlano nemmeno la nostra lingua”.

Quello della lingua è forse il problema numero uno. Ridotto a dialetto da usare solo in privato e senza dare nell’occhio durante la dominazione sovietica (quando la lingua ufficiale imposta da Mosca era il russo), il lettone è ridiventato lingua del Paese contestualmente alla dichiarazione di indipendenza, e da allora chiunque parli il russo è visto automaticamente come un nemico. E a nulla valgono le osservazioni di chi sostiene che ormai si tratta di vicende lontane e che i lettoni di etnia russa nati in Lettonia non meritano di essere trattati come cittadini di serie B. La discriminazione più dura riguarda gli ex membri del Kgb e dell’Armata rossa, ma anche i loro discendenti. E poi c’è il problema delle famiglie miste, dove un coniuge è lettone e l’altro è alieno, per cui al secondo sono vietati molti dei diritti garantiti al primo.

Ora alcuni cittadini sensibili alla questione si sono organizzati per arrivare a un referendum con il quale chiedere la parità dei diritti, ma il percorso è accidentato. La destra, al governo da vent’anni, teme che dare il diritto di voto ai nepilson vorrebbe dire far crescere automaticamente le opposizioni di sinistra. Un alieno ha deciso inoltre di portare il proprio caso di fronte alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Così si spera che una risposta, mai arrivata da Riga, possa arrivare dall’Europa.

Illustrazione: Giampero Ferrari

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