Il dialogo del pianerottolo

Pubblicato il 10-08-2012

di Matteo Spicuglia

di Matteo Spicuglia - È possibile abbattere i muri religiosi e culturali? Da Cuneo, la storia di integrazione di Gurmuck, mungitore originario del Punjab. L’immigrazione diventa opportunità.

Beinette, paesaggio senza tempo tra Cuneo e Mondovì. La cascina Giobbi ha più di 200 anni. È una testimonianza della società contadina di una volta. Il Piemonte delle famiglie patriarcali, la vita regolata dalla luce del sole, dal fluire lento delle stagioni, dalla pioggia che dà frutti o dalla siccità che chiude il cielo. Luoghi come questi hanno accolto i destini di uomini e donne che si sono impastati con la vita dei campi e degli animali. Giuseppe Bottasso porta ancora avanti la tradizione. Si illumina quando parla della storia della cascina dei suoi avi. Insieme a lui, i due figli, il fratello e i nipoti. Continuano tutti a vivere tra queste mura. In stalla, ci sono 450 mucche. Mungitura tre volte al giorno. Latte di qualità, richiestissimo dalle centrali della zona e di altre regioni, come la Liguria. Il lavoro è duro, ma le motivazioni superano la fatica. E poi, da qualche anno, Giampiero e la sua famiglia non sono più soli.

Ad aiutarli sono arrivati nuovi dipendenti: tutti stranieri. Anche qui, come avviene in altre zone del nord d’Italia, il lavoro di stalla è diventata una specialità degli indiani. La mungitura, la cura degli animali, la pulizia delle stalle: gli italiani non vogliono più fare questo lavoro. Cercare fuori all’inizio è stata una necessità. “Ho provato a mettere degli annunci - racconta Giuseppe - ma questo lavoro è particolare e se non hai passione non riesci a farlo. Qualche giovane italiano ha provato e poi è andato via”. Perché gli indiani? “Me ne avevano parlato alcuni amici. Mi sono fidato e oggi non mi pento. Sono lavoratori e persone bravissime. La dedizione per il lavoro è totale. Oggi, non ho più dubbi”. Gurmukh Singh è arrivato alla cascina Giobbi nel 2005. Trentacinque anni, originario del Punjab, è di religione sikh.

Ci accoglie sorridente con il suo turbante tradizionale. Racconta volentieri la sua storia. “In India stavo bene. Ho studiato, mi sono laureato in Scienze politiche. Forse, avrei trovato un lavoro, ma la vita sarebbe stata molto difficile, al limite della sopravvivenza”.  Non ci sono grandi motivazioni nella scelta di lasciare tutto e partire. “È triste dirlo - dice Gurmuck - ma parti esclusivamente per motivi economici. Nel cuore di ognuno c’è il desiderio di dare sicurezza a te e alla tua famiglia ed è normale cercare di farlo”. La molla scatta nel 2002. Gurmuck atterra a Roma. I primi mesi non sono facili: una lingua sconosciuta, un Paese nuovo, la nostalgia di casa. Poi, i primi lavoretti nell’agricoltura, i primi amici, il primo contratto in regola, il miraggio del permesso di soggiorno che diventa realtà. In Piemonte, una nuova opportunità, grazie alla segnalazione di un amico. Le porte della cascina si aprono presto: un lavoro sicuro, pagato bene rispetto ad altre situazioni.

Oltre mille euro, più l’alloggio. Gurmuck si dà da fare, per Giuseppe e la sua famiglia diventa uno di casa. Il lavoro non è mai stato un ripiego. “In fondo, la mia è una vita sana. Lavorare con gli animali non mi pesa. Per questo devo dire grazie alle mie tradizioni”. Gurmuck è figlio di una cultura contadina che non considera degradante la vita dei campi. I sikh danno grande importanza ad ogni essere vivente: chi ha una mucca in certe zone dell’India è ricco, non muore di fame, ha tutto quello che serve. Ma c’è di più. “Per noi - spiega Gurmuck - ogni animale è sacro. Non consideriamo le mucche delle divinità, semplicemente rispettiamo la vita. Siamo vegetariani, un animale ha diritto ad essere rispettato. È come tra le persone: se io ti rispetto, anche tu fai altrettanto”. Fa un certo effetto vedere Gurmuck al lavoro, la delicatezza con cui accompagna le vacche alla mungitura. Loro ricambiano: tranquille, obbediscono ad ogni richiamo. La cascina in questi anni è diventata lentamente il luogo dove costruire un futuro. Gurmuck pensa ogni giorno alla sua famiglia, alla terra delle origini, alle radici.

Non esclude di tornare in India un domani, ma per ora, dice, la sua vita è in Italia. A Beinette, un anno fa, è arrivata anche la moglie e ad ottobre è nato Avneet, ribattezzato già Bruno. “I nostri nomi sono un po’ complicati, - spiega Gurmuck - ce ne siamo scelti anche uno italiano: io per tutti sono Gianni. Per il mio bimbo, ho pensato a Bruno perché come me è un po’ scuro di pelle”. Quando parla, Gurmuck ti fa capire che da queste parti l’integrazione non è mai stata un problema. Con il tempo il confronto tra culture è diventato un arricchimento, un’opportunità per allargare lo sguardo. Normale, ma non scontato: se vivi nello stesso cortile, i muri cadono automaticamente. A Natale, è stata una festa per tutti. E c’è grande rispetto anche per la religione dei nuovi arrivati.

Alle pareti di casa, Gurmuck ha appeso le immagini dei guru sikh. “Sono come i vostri santi”, spiega. Ormai, i rapporti di lavoro si sono trasformati in legami di amicizia e condivisione. Il capo famiglia Giuseppe racconta con orgoglio di come la cascina si sia ripopolata. “Fino a qualche anno fa, eravamo rimasti in pochi. Ora siamo 22 persone, comprese le famiglie dei lavoratori. È bellissimo vedere questi luoghi abitati di nuovo dai bambini. Prima o poi, - dice Giuseppe con un sorriso - dovremo costruire le scuole”. Anche Gurmuck è contento. Oggi, le difficoltà degli inizi sono davvero tutte alle spalle. C’è una vita da costruire. Avneet Bruno già sorride.


Speciale – Il DNA della SPERANZA 5 / 8
Potremmo chiederci quale significato la nostra cultura dà alla speranza. Sicuramente: sopravvivere alla fame o alle catastrofi, un posto di lavoro, la salute, una vincita, una vittoria politica... Ma anche le riflessioni della filosofia e della teologia, che puntano lo sguardo oltre l’immediato. Le risposte sono tante quante le attese che ci portiamo dentro. Noi abbiamo scelto di parlare della speranza partendo da fatti concreti della vita, da testimonianze che raccontano come si può trasformare il negativo in positivo, come sprigionare le risorse che sono a disposizione dell’uomo. Senza dimenticare che la responsabilità di portare alla luce una situazione imprigionata dal buio è personale. Siamo come delle candele che aspettano di essere accese per essere e fare luce. E lasciarsi consumare attraverso le carità, attraverso la compassione, attraverso l’aiuto agli altri.

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