Dentro la primavera araba

Pubblicato il 14-08-2012

di Matteo Spicuglia

Samir Khalil Samir ospite dell’Università del Dialogo ci parla delle trasformazioni del Nordafrica e del Medio Oriente.
Rivoluzione, rivolta, primavera? Gli eventi del Nord Africa si prestano a tante chiavi di lettura. Ma una cosa è certa: nulla sarà come prima. La trasformazione è in atto, per comprenderla bisogna cogliere le sfumature, senza semplificare. Una pista di riflessione interessante è arrivata da Samir Khalil Samir, ospite dell’ultimo incontro dell’Università del Dialogo del Sermig. Il 17 maggio, l’Arsenale della Pace ha accolto uno dei maggiori esperti mondiali di islam e società arabe. Nato al Cairo, gesuita, padre Samir ha accompagnato giovani e adulti dentro la complessità degli eventi delle ultime settimane. I fattori in gioco, il ruolo della religione, i giovani, il loro futuro.
Cosa è accaduto veramente? “Sembra incredibile ma tutto è partito dal dramma di un giovane tunisino di 24 anni, diplomato, senza lavoro. Per vivere, aveva deciso di vendere frutta e legumi con il suo carretto. Un controllo di polizia: non ha la licenza, così non può lavorare. Tutta la merce viene sequestrata, ma quel giovane per la disperazione decide di farla finita. La rivoluzione è partita da questo gesto”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso. “In Tunisia e negli altri Paesi della regione – spiega padre Samir – da decenni la gente era sotto pressione: un controllo incredibile, ad ogni livello. E poi, c’era la disuguaglianza tra governanti sempre più ricchi e masse sempre più povere. Una situazione diventata insostenibile soprattutto per i giovani e gli intellettuali”. Impossibile accettare la violazione di libertà e di diritti, la mostruosità giuridica di dinastie repubblicane e di regimi che avevano a cuore solo i loro interessi. Le nuove generazioni hanno deciso di dire “Basta!”. E in questo sono state aiutate dalle nuove tecnologie, da internet, da Facebook e Twitter.
“È la nuova arma di chi non è ricco, – spiega padre Samir – oggi anche a poco prezzo si può entrare in contatto con il mondo”. Il mondo arabo arriverà alla democrazia? “Servirà tempo. La domanda di fondo è se sia possibile arrivare a una democrazia senza una scuola, una preparazione. Noi abbiamo già vissuto un’epoca di rivoluzioni, negli anni ’50. Penso all’Egitto, all’Iraq, alla Siria, all’Algeria. Erano movimenti rivoluzionari che volevano superare le monarchie, il colonialismo. Eppure, il risultato è stato l’autoritarismo, non la democrazia. L’insegnamento è per oggi: non si può diventare democratici in 3 mesi. Un analista egiziano mi ha detto che serviranno almeno 10 anni. L’Europa in fondo ha raggiunto l’obiettivo lungo secoli, segnati da rivoluzioni, guerre, sangue. Credo che anche per noi sarà così. È inevitabile, anche perché chi ha costruito un potere assoluto non prepara la strada alla democrazia. Per noi, poi, c’è un problema in più, legato alla nostra mentalità. Il sentimento che ci unisce è il fatto di sentirsi tra i peggiori del mondo. L’Occidente non se ne rende conto perché noi arabi vi diciamo il contrario e cioè che siamo i migliori, i più forti, a volte i più violenti.
Eppure, noi sappiamo che c’è un verme nella nostra cultura degli ultimi secoli: dopo il 1300 non abbiamo prodotto niente di importante a livello mondiale. Dove sono scienziati, medici, filosofi, fisici, musicisti? Che contributo abbiamo dato? Di chi è la colpa? Per secoli, abbiamo accusato l’impero ottomano e i Turchi. Poi, il colonialismo, l’Occidente. Cerchiamo sempre delle cause esterne, perché pensiamo che il male non possa essere in noi. La verità però la conosciamo. Tutto questo produce da una parte una rabbia interiore profonda, dall’altra un desiderio fortissimo di cambiamento”.


La difficoltà più grande
“Costruire la democrazia per noi è difficile anche perché non abbiamo una tradizione di indipendenza del pensiero. Molti intellettuali, esponenti politici, artisti, rappresentanti della società civile negli ultimi anni si sono avvicinati all’islamismo, a volte per convenienza. In tanti, oggi sono a libro paga di Paesi come l’Arabia Saudita. Inoltre, c’è il problema enorme della corruzione. Ma è il concetto stesso di democrazia in gioco. Democrazia significa governo del popolo, di una maggioranza. Se in Occidente le forze si riuniscono intorno a programmi e idee, inevitabilmente da noi le maggioranze avranno sempre un colore religioso. Ci sono i curdi, gli alawiti, i sunniti, i cristiani, gli sciiti. Questi elementi tornano fuori in continuazione. Se sei un cristiano, potrai anche essere bravissimo, ma avrai la certezza di non essere mai eletto. Dobbiamo maturare”.

Il rischio di una deriva religiosa
È la paura di molti. Il mondo arabo si confronta tutti i giorni con l’estremismo. In Paesi come l’Egitto e la Siria, sono sempre più diffuse le azioni dei salafiti. Sono un gruppo che vuole imitare il profeta Maometto in tutto, con un approccio antistorico alla religione. Il profeta aveva la barba? Tutti devono averla. Era vestito con la tunica bianca sotto le ginocchia? Tutti devono vestirsi così. Mangiava seduto per terra? Bisogna mettere al bando le sedie. E ancora: vogliono il califfato, una società come quella di Maometto, divisa in credenti, dhimmi, ovvero gli ebrei e i cristiani e i non credenti. Questi ultimi possono scegliere se convertirsi o essere uccisi. Oggi i salafiti se la prendono con i cristiani ma anche con i musulmani che considerano eretici, per esempio i sufi. Sia chiaro: la loro è una tendenza minoritaria, ma che si fa sentire. Gli stessi movimenti che in passato erano più laicisti oggi invitano a recuperare l’elemento religioso. Al tempo stesso, sono forti le spinte per mantenere una divisione tra sfera politica e sfera religiosa. Penso per esempio all’imam egiziano Osama al Qussi. È straordinario, perché predica sul Corano, conosce perfettamente le fonti, ma propone un islam laico e una forma di stato civile. Addirittura, si è spinto a dire che per gestire l’economia la religione non c’entra. Si può essere anche cristiani. La fede definisce i principi, l’etica, i valori, ma per il resto bisogna lasciare spazio. Ci sono quindi segnali opposti. Vedremo come si evolveranno.

Il rapporto con l’Occidente
Il mondo arabo vede l’Europa e l’Occidente come realtà ambigue. L’attrazione è forte. Se domani in qualunque città araba qualcuno offrisse la green card per andare in America tutti partirebbero. Contemporaneamente, per gli arabi il peccato dell’Occidente è quello di non avere più una religione. Noi facciamo fatica a capire il concetto di laicità, tendiamo a leggerlo come forma di ateismo. In fondo, l’Europa di oggi è grosso modo lontana dalla sua tradizione religiosa. L’opinione pubblica araba tende a spiegare il fenomeno proprio come frutto della laicità. Come dire, se togliamo la religione dallo spazio pubblico, anche noi un domani saremo come gli europei. L’immagine che i giovani arabi hanno dell’Europa è quella della libertà sessuale, della mancanza di regole. In fondo, vedere due persone che si abbracciano per strada nei nostri Paesi può essere scioccante, perché siamo abituati a separare la sfera privata da quella pubblica. Forse, anche l’Italia di 100 anni fa era così. Certo, il mondo arabo ammira la libertà politica, il fatto che la gente non venga controllata, il progresso. Nonostante tutto, era stimata molto di più l’Europa del 1800, un continente con la sua religiosità, morale ed etica, unita alle evoluzioni tecniche, scientifiche e democratiche.

L’incontro è possibile
Spesso mi viene chiesto come avvicinare mondi così diversi, soprattutto sull’onda dell’immigrazione. Non è difficile, ma dobbiamo partire dal concreto. Di fronte agli immigrati si possono avere reazioni diverse. La prima: ecco l’invasione! La seconda: ecco la Provvidenza che ci permette di incontrare mondi diversi senza fare migliaia di chilometri. La verità sta in mezzo. Io propongo un altro approccio: il terzo mondo ha braccia, ma niente soldi e lavoro. L’Europa ha progetti, mezzi, aziende ma niente braccia. L’Europa senza immigrati non potrebbe mantenere il suo livello. Gli immigrati senza Europa sarebbero costretti a vivere in Paesi ancora più poveri. Serve quindi uno scambio, nella giustizia, senza sfruttamento. Uno scambio che può diventare anche l’occasione per scoprire e conoscere. È la vita di tutti i giorni il terreno di incontro: penso alle donne, ai ragazzi a scuola, all’amicizia che può nascere tra giovani che imparano a vivere uno vicino all’altro. La convivenza arricchisce entrambi, favorisce uno scambio di esperienze, di servizi, di amore. Ai giovani dico: non è difficile! Non ci vuole granché: in fondo, le cose più importanti della vita sono quelle più semplici, non sono le idee. Vedete, nella casa di Dio ci sono molti posti. L’Islam a volte pecca perché è portato ad escludere. Ma nessuno può essere messo alla porta. Se escludo anche una persona sola, io escludo tutto il mondo.

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a cura di Matteo Spicuglia
Foto di Maurizio Turinetto

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