La luce annulla il buio

Pubblicato il 21-06-2015

di Mario Airoldi

Elaine Penrice, Guarigione del cieco natoMario Airoldi – Nella guarigione del cieco nato (Gv 9,1-7) vi è un'immagine del battesimo: l'acqua lava gli occhi, e gli occhi vedono. La Chiesa delle origini chiamava i battezzati gli illuminati della luce di Cristo.


Stupore di un amore

Come una scena cinematografica, il brano di Giovanni si può suddividere in sette sequenze: l'incontro di Gesù con il cieco nato e la guarigione di quest'ultimo, la discussione tra i presenti (un fatto inaudito e umanamente non recepibile), i farisei che convocano il cieco (primo interrogatorio), poi non soddisfatti chiamano i genitori (secondo interrogatorio), poi ancora il cieco... e via di seguito.
I farisei sono impermeabili ad ogni riconoscimento di Gesù ed irremovibili nelle loro sicurezze. Noi siamo figli di Abramo, i circoncisi, i discepoli di Mosè, abbiamo la legge e non abbiamo bisogno di altri profeti... Sono ciechi, ma non sanno di esserlo. Perciò essi non chiedono di essere guariti e la luce di Gesù non può illuminarli. È il peccato che più facilmente possiamo commettere anche noi; possiamo correre il rischio di essere dei falsi devoti e per questo far parte di coloro che non possono essere illuminati perché la loro presunzione fa da schermo alla luce.
Le domande di Pietro: Chi ha peccato per la malattia di un malato? Lui o i suoi genitori? Perché è stato castigato? Gesù spiega che la sofferenza fisica non è un castigo, e non è sempre collegabile direttamente con il peccato. È un enigma doloroso, che può divenire strumento di un bene superiore. In questo caso specifico, attraverso di esso si può manifestare la gloria del Signore.
Quello che per giunta fa problema, ai farisei, è che il miracolo è avvenuto in giorno di sabato, in cui è proibito qualsiasi lavoro. Anche fare del fango era considerato un lavoro. Può capitare anche a noi di rimanere legati ad una religione fatta di precetti e di devozioni, così irrigiditi che alla fine l'ottusità prevale sullo stupore di fronte alle meraviglie compite dall'amore. Un cieco è guarito; ma fa problema, vengono persino rimproverati i suoi genitori... È mai possibile che un modo di rapportarsi con Dio faccia perdere lo stupore per le meraviglie del suo amore che guarisce? C'è un sabato infranto. Un miracolo comincia a far sballare gli equilibri con cui si reggeva tutto. Questo Gesù è da considerare dunque un profeta? Però non sappiamo da dove venga. Non a caso Giovanni dice che è l'inviato di Dio, il mandato da lui; anche se umanamente è di un villaggio insignificante della Galilea come Nazareth dev'essere accolto come l'Unigenito di Dio fattosi primogenito di molti fratelli.
L'evangelista quindi sembra dirci: «Abbiate gli occhi aperti a capire che Dio è con voi, è venuto per portare la salvezza e comincia a darne i primi segni nel Messia che guarisce i ciechi. Altro che il problema del sabato e degli equilibrismi da salvare!».
Immaginiamoci i genitori: povera gente che di fronte ai farisei sta sul chi va là, come di fronte ai potenti, usando furbizia per poter uscirne bene: chiedetelo a lui, noi non ne sappiamo niente...
Certo, al tempo di Gesù non era molto facile discernere se egli era davvero il Messia o un illuso o un falsario. Intanto anche noi oggi possiamo correre il rischio che Dio ci passi vicino e non ce ne accorgiamo, preoccupati come siamo dei nostri piccoli equilibri di credenti e di ecclesiastici, per barcamenarci nelle difficoltà o per trarre vantaggi.
Chi opera cose buone da parte di Dio, non può essere avverso a Dio o bestemmiatore. Ma quando il cieco chiede con una punta di ironia: se volete diventare suoi discepoli anche voi..., lo cacciano fuori. Gesù lo incontra e gli rivela chi è: il Figlio dell'uomo è colui che ti parla. Ecco allora la professione di fede adorante da parte di chi ora ci vede non con gli occhi della carne soltanto.
L'uomo guarito cade in ginocchio e dice: io credo, Signore. È l'atto di fede cristiana, che prima della Pasqua consiste già nell'adorazione di Gesù come Signore.
L'umile gente, che viene da una cecità esteriore e anche interiore, a volte apre l'umile cuore all'adorazione, con un sussulto ed uno stupore di gioia; mentre chi sapeva di teologia, chi conosceva la dottrina, è rimasto cieco, con il cuore indurito alla misericordia di Dio. «Rimanete nel peccato e morirete nel vostro peccato se non vi convertirete», dice Gesù.
Chiediamo a lui che il nostro cuore, illuminato al momento del battesimo non si accechi mai, neanche per una pur devota ma falsa religione, ma sempre si lasci illuminare da lui. Sempre sappia cadere in ginocchio, sempre sappia, ogni giorno nuovamente stupirsi per le meraviglie creative del suo amore.


Risorti nel Risorto

Questo brano di Giovanni mi è stato occasione per una riflessione circa i miracoli delle guarigioni, sia che queste ultime avvengano o meno. Ultimamente questo carisma, molto presente nelle prime comunità cristiane, è stato abbastanza rivalutato, specialmente dai gruppi del Rinnovamento dello Spirito.
Secondo me dobbiamo rinnovare in noi innanzitutto la consapevolezza che Gesù è risorto e ha rinnovato l'universo intero con il sangue della sua Croce.
Il mattino di Pasqua, egli ha ripreso il suo corpo risorto, corpo fatto con gli elementi dell'universo, come il nostro; questo significa che anche la materia ha ricevuto l'inizio della risurrezione. La vita dell'uomo è già nascosta con Cristo in Dio, perché la nostra umanità è stata da lui assunta nell'incarnazione e riassunta nella gloria della risurrezione.
Il nostro corpo nel suo ci dice dunque che tutto l'universo è stato trasfigurato già in cieli nuovi e terra nuova, e lo sarà completamente negli ultimi tempi.
Con questa premessa davvero le guarigioni sono il segno che il male può essere vinto, che la sofferenza può essere guarita, che anche l'universo in contrasto si può pacificare.

La Pasqua del Cristo ci comunica un altro messaggio profondo e salvante: Gesù con la sua risurrezione ha vinto definitivamente il male del mondo. Non ha compiuto miracoli per salvare se stesso. Ai piedi della Croce il commento ironico della gente fu: «Ha salvato gli altri, ora salvi se stesso: scenda dalla croce, se ne è capace...». «Ma come» sogghignavano i farisei «aprivi gli occhi ai ciechi e adesso non sai come scendere giù dalla croce? Allora ti sconfessi da te stesso: Dio non era con te, e tu dicevi il falso!».
E fu ucciso proprio alla vigilia della Pasqua, perché tutto il popolo accorso a Gerusalemme per la festa vedesse la sua morte umiliante, dopo le acclamazioni delle Palme. «Maledetto colui che pende dal legno, infame, abbandonato dagli uomini e da Dio: non avrà sepoltura fra il popolo di Dio», dice la Legge.

Questo è il nostro Dio sulla Croce: l'impotente che non fa miracoli e che anzi viene beffeggiato per la sua incapacità a guarire se stesso. Questo significato della Pasqua è il punto determinante, fondamentale della nostra fede, perché contiene una verità che è la più sofferta ma anche la più salvante di tutte.
I vangeli ci preparano all'accoglienza di questa verità lentamente, svelando al credente, a poco a poco, il mistero messianico: Gesù che intima il silenzio ai lebbrosi appena guariti, ai demoni che Lo riconoscono, agli stessi discepoli...
Sua madre tace. Il Cristo vuole che sia il cuore a riconoscerlo, ad adorarlo come proprio Dio. Ciò avviene solo nell'attenzione, nella vigilanza: per aprirsi alla Parola il cuore deve compiere un umile, lungo catecumenato.
La verità alla fine viene alla luce, ma a rivelarlo non sono i credenti, ma un centurione romano, pagano: nel momento in cui tutta la creazione pareva oscurarsi, grida: «Davvero costui era figlio di Dio».
Il messaggio che ne deriva a noi mi pare allora sia questo: dobbiamo credere nella risurrezione con il cuore, nel profondo di noi stessi, senza pretendere grandi segni evidenti, senza reclamare miracoli. Dobbiamo vivere la fede nell'inevidenza di questo Dio che muore sulla Croce; in questo mondo perdente noi riconosciamo i passi del Dio che ha vinto il mondo e la sua logica.


Viventi nell'eternità

Davanti al dolore innocente dei bambini di tante parti del mondo chi può dare una risposta? Davanti all'ingiustizia della fame, della mancanza di libertà, di lavoro, chi può dare una risposta? Nell'evidenza della follia, chi può dare una risposta? Ad Auschiwtz, chi può dare una risposta?
Il nostro Dio non dà una risposta espositiva al dolore del mondo, una bella spiegazione che non ci servirebbe, ma l'assume su di sé. L'assorbe in sé come solo lui poteva fare, cioè con una capacità infinita di soffrire, perché noi fossimo guariti dal male, guariti dal peccato, guariti dalla morte. Il Santo prende su di sé il nostro male, il nostro peccato, la nostra morte, e lo fa nel silenzio, nell'assurdità, nell'abbandono più totale.
Dio non risponde, quindi, alla ragione umana, ma una risposta la dà, ed è l'ultima, la definitiva: la sua parola. Ed è una parola d'amore.

«Fu reso perfetto dalle cose che patì» (Eb 5,9). Il nostro Dio sarebbe stato più povero di qualsiasi creatura sofferente al mondo, se non avesse fatto l'esperienza del dolore. Reso perfetto: mancava qualcosa a Dio, non sarebbe stato completo il nostro Dio senza la sofferenza. Associato a lui, il nostro dolore è entrato nella gloria.
Le cinque piaghe di Cristo Risorto sono le nostre. Il Figlio non ha detto a Maria di Magdala, là nel giardino: sono venuto a condividere il dolore degli uomini, l'ho fatto, mi è costato, ho avuto paura, ero tentato di desistere. Ho chiesto al Padre il coraggio di dire si fino alla fine. Ho gridato il mio "Tutto è compiuto", mi sono consumato in questo voto d'amore. Però adesso basta, mi cancello di dosso le piaghe, anche il ricordo dell'olocausto e torno nella gloria del Padre mio. È tutto passato... No, il risorto porta con sé le piaghe, la Santìssima Trinità non è più quella di prima. La seconda Persona rientra nei Tre con la nostra umanità ferita, con le piaghe gloriose del nostro dolore, prese su di sé in modo incancellabile per tutta l'eternità. La nostra umanità è e sarà eternamente presente nella Trinità, attraverso i segni di un Amore più forte della morte.

Quindi il nostro Dio ha assunto il dolore umano, l'ha fatto suo, l'ha redento, e così facendo lo ha reso redentore: non c'è sofferenza che non faccia parte della sua passione redentrice. E infine l'ha glorificato per tutta l'eternità. E quanto più siamo coscienti di questo, e tanto più la sofferenza diventa forza di redenzione. Allora un malato, un morente può dire con verità: «Completo in me quello che manca alla passione di Cristo, per la salvezza del mondo» (Col 1, 24).
Allora anche per noi, come per Tommaso, è consolante mettere la mano in quella piaga. Allora anche per noi è beatitudine, come per santa Teresina di Lisieux non aver neanche bisogno di farlo perché la nostra fede è quella di un bimbo in braccio al padre... Allora anche per noi, come per san Francesco, è estasi assumere le sue piaghe nel nostro corpo: «Io ti prego, Signore mio, che tu mi faccia questa grazia, che io potessi sentire nel mio cuore e nella mia carne quell'infinito eccessivo amore con cui tu, mio redentore, hai amato me e hai dato te stesso per me». San Francesco fu accontentato: lui che tanti anni prima, baciando il lebbroso, aveva voluto condividere le piaghe fisiche e morali del suo fratello, adesso sente quelle piaghe, quel dolore, trasformato in amore.
Gesù sulla Croce ci ha donato il suo Spirito; chiediamoglielo di nuovo, ancora e sempre, perché sappiamo essere fraterni e riconciliati fra di noi, per riconciliare il mondo a lui. È il suo destino, è la nostra felicità.

CAMMINO DI COMUNIONE - Rubrica di Nuovo Progetto

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