Infanzia ferita del mondo

Pubblicato il 18-01-2024

di Luca Periotto

DALLA GIORDANIA FINO A GERUSALEMME, PASSANDO PER L’INDIA E IL MESSICO, ALL’OMBRA DI UN MURO ALTISSIMO CHE TAGLIA IN DUE PERSINO IL MARE. Volti di bambini alle prese con una lotta per la sopravvivenza che per loro è cominciata troppo presto. Ma nei loro occhi non c’è solo il desiderio di cibo, acqua e di tutte le risorse necessarie per vivere. C’è sicuramente di più, emerge prepotente il bisogno di nuove opportunità, la possibilità di uscire da destini già scritti per loro da qualcun altro. Ogni volto è una storia che ci racconta che, pur nascendo in un determinato contesto e in precise culture e tradizioni, non potremo mai identificarci totalmente con esse. Poiché la dignità di ciascuno ci chiama a realizzare pienamente la nostra identità, rimanendo fedeli alla nostra più intima natura personale. È il tema profondo, profondissimo della libertà che a molti – troppi – non è concesso esercitare a causa della povertà materiale e culturale in cui sono invischiati.

BAMBINI USATI COME TROFEO DI GUERRA E ARMA NEGOZIABILE. L’infanzia ferita, di cui distrattamente ci accorgiamo solo dopo il numero agghiacciante delle vittime all’ennesima tragedia trasmessa sui canali televisivi. Una testimonianza sull’infanzia attraverso diversi teatri nel mondo, dalle tende dei campi profughi in Medio Oriente all’Africa, passando per i cambiamenti geopolitici che hanno martoriato i Paesi dell’est per giungere in quella parte d’Europa dove il flusso dei migranti in fuga da conflitti diventa una realtà più vicina ai nostri occhi ma non abbastanza per farci indignare. In Israele come in Ucraina i bambini sono merce di scambio. È la deriva dei fondamentalismi e degli estremismi politici. I bambini rapiti da Hamas e usati come arma non convenzionale su Tel Aviv, mentre l’IDF (Israel Defence Force) bombarda indiscriminatamente ospedali e scuole di Gaza dove gruppi armati di Hamas si nascondono usando gli stessi bambini come scudi umani, causandone la morte di oltre quattromila. In Ucraina, alcune ONG riportano di ventimila minori sottratti alle proprie famiglie e deportati con la forza in Russia dall’inizio dell’invasione. Il report di UNICEF è di 1.500 bambini morti dal 2018 a oggi attraversando il Mediterraneo in cerca di una via di fuga da guerre nel proprio Paese. Solo nel 2023 sono stati 289 quelli dispersi in mare. Nulla è cambiato, pensando a più di trent’anni fa durante l’assedio di Sarajevo dove persero la vita 1.600 bambini. Non sono solo numeri, dietro a ognuno di loro esiste una data di nascita, un tempo da vivere non vissuto, sogni sognati dove quell’infanzia viene sottratta, annullata e cancellata. Una vita, nella miglior ipotesi il cui destino passerà da un campo profughi a un altro. Una narrazione dove la sola chiave di lettura lega le immagini di mondi diversi tra di loro a un sottile filo, quello di una finestra spalancata sull’infanzia che non è solo una ferita aperta che gronda sangue, ma va oltre a ogni immaginazione per diventare un grido di dolore che si perde nell’indifferenza di chi non vuole vedere.

«PAGANO MEGLIO PER LE BOTTIGLIE IN VETRO, LA PLASTICA VIENE DOPO. SE SEI VELOCE PUOI GUADAGNARE ANCHE UN DOLLARO AL GIORNO»: MI RACCONTA SOKHIM, l’unico ragazzo con il quale riesco a dialogare un po’ in inglese. Indossano stivali di gomma e lavorano con il viso avvolto in stracci pesanti, per ripararsi dalla puzza insopportabile. Un gruppo di circa 20 bambini con bastoni che terminano a uncino, circonda il camion appena arrivato. Formano due file ordinate. I più piccoli sono immersi fino alla vita in un mucchio di spazzatura. Mentre il camion apre il portellone, si tuffano, incuranti del pericolo, per raccogliere la plastica e il vetro da depositare nei sacchi. Trascorrono fino a 14 ore al giorno a cercare tra i rifiuti, vetro, plastica e metallo da rivendere. Tra il fumo dei rifiuti che bruciano, le mosche e l’odore nauseante, le parole acquistano nuovi significati. È qui che un bambino definì la parola felicità come: «vedere il sole splendere ogni giorno». Percorrendo venti chilometri lungo la National Road 6, c’è un piccolo villaggio conosciuto dalle ONG locali come “il piccolo sporco segreto di Siem Reap”, uno slum fatiscente costruito intorno al bordo di un pozzo. Due ettari circa di terreno riempiti dalla spazzatura prodotta in città. In questo inferno, ogni giorno intere famiglie vivono e lavorano setacciando gli scarti con la speranza di trovare una bottiglia di vetro o un barattolo di latta. Spazzatura per tutti noi, ma non per gli abitanti di Anlong Pi che sperano nella fortuna di rivenderla, ricavandone 2.000 riel corrispondenti a 50 centesimi di dollaro a sacco.

Luca Periotto

NP Dicembre 2023

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