Il dilemma della non violenza

Pubblicato il 12-09-2022

di Vittorio Emanuele Parsi

È davvero sempre possibile una risposta non violenta alla guerra? Serve un dibattito serio per trovare vie credibili per la pace

È stato scritto che “i miti erediteranno la terra”, ma osservando quello che dal 24 febbraio accade intorno a noi, viene da aggiungere “sempre che i violenti non li sterminino prima tutti e magari non distruggano l’intero pianeta”.

La questione è sempre la stessa come opporsi con successo alla violenza? La scelta della risposta non violenta funziona sempre? O ha invece bisogno di un interlocutore perlomeno liberale, se non proprio democratico? Quando guardiamo al leader indiscusso della resistenza non violenta il Mahatma Ghandi, è difficile non vedere la sua azione stagliarsi, prima in Sudafrica e poi soprattutto in India, sullo sfondo di un ambiente politico-istituzionale (l’Impero britannico) e di una società (quella britannica) caratterizzate dalla rule of law, dalla competizione politica, da istituzioni e da una cultura liberali. Certo, come tutti gli imperi coloniali europei, anche quello di Londra conosceva una sistematica torsione dei principi e delle norme: che si applicavano diversamente (e talvolta erano espressamente diverse) ai cittadini bianchi e a tutti gli altri sudditi. Ma nonostante il razzismo congenito della cultura di inizio Novecento, la strutturale diffidenza dei media della “madrepatria metropolitana” (come pudicamente si definivano i Paesi colonialisti rispetto ai colonizzati), quella britannica era una “società aperta” caratterizzata da istituzioni liberaldemocratiche: e ciò ha costituito una delle ragioni fondamentali del successo dell’azione non violenta, unita evidentemente al valore dei militanti, disposti a pagare spesso con la vita la loro scelta. 

Una situazione simile fu quella del movimento per i diritti civili di Martin Luther King, che alla violenza brutale della polizia degli Stati segregazionisti del Sud oppose sempre la scelta non violenta, anche per far meglio risaltare le ragioni dei miti verso l’abuso da parte dei violenti. I violenti non erano solo i poliziotti, ma le istituzioni e la società del Sud degli Stati Uniti. Però il messaggio era consapevolmente rivolto innanzitutto al resto della società americana e alle istituzioni federali, che alla fine intervennero per imporre il rispetto della Costituzione. Una vittoria pagata col sangue e la vita di molti, compresa quella del Reverendo King.

Oggi, di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, il pacifismo appare in difficoltà. In parte è dovuto alle mediocri e narcisistiche figure mediatiche che se ne appropriano mistificandolo e rendendogli un pessimo servizio. Ma di questi personaggi, e di chiunque mostri un’evidente disonestà intellettuale, non vale la pena parlare. In parte perché, come si sente spesso osservare, il lessico e la logica della guerra hanno oscurato la logica e il lessico della pace. Chi legge quello che scrivo sa bene che non sono un pacifista, e personalmente non credo nel valore assoluto della reazione non violenta alla violenza. Ma nutro un profondo rispetto per chi ci crede e lo pratica con coerenza in ogni aspetto della sua vita. E non faccio fatica ad ammettere che in circostanze come quelle citate in apertura di questo pezzo, il pacifismo integrale si è rivelato essere l’arma non violenta assoluta e di successo. Mi interrogo però se funzionerebbe in questo caso. E la mia risposta è no. Io purtroppo non credo che ci siano alternativa ad aiutare, anche militarmente, la resistenza del popolo ucraino contro l’invasore russo, perché la società russa non ha pozzi dell’informazione a cui abbeverarsi che non siano stati avvelenati dal regime, perché Putin in questi oltre 20 anni di permanenza al potere, un potere sempre più assoluto, ha costruito una non-verità e una neolingua (l’operazione militare speciale) degna del peggior incubo orwelliano.

Io rimango in una cornice interpretativa di questa resistenza del popolo ucraino che è la medesima che mi ha sempre portato a ritenere che la causa dei morti delle Fosse Ardeatine non fosse l’attentato di via Rasella ma l’occupazione nazista dell’Italia, e che la responsabilità di quelle vittime fosse dei nazisti e non dei partigiani. Per cui penso che rifornire di armi i combattenti ucraini significhi consentirgli di lottare per la loro libertà, morendo in suo nome se necessario, ma rifiutando di arrendersi alla servitù imposta dall’invasore. 

Ma quello che più mi preme è interrogare voi, fare sì che voi vi interroghiate e forniate le vostre risposte, secondo la vostra ragione e la vostra coscienza. Questa è la cosa più importante: alimentare il pluralismo informato delle posizioni, costruire un dibattito responsabile anche davanti, anzi soprattutto davanti, all’orrore della guerra. E fare sempre un passo indietro, noi stessi con le nostre convinzioni e il nostro protagonismo, di fronte all’orrore indicibile della morte, della morte degli altri, in segno di rispetto per quei morti che non avranno più una vita, mai più. 

Con tutto il cuore, vorrei esistessero altre strade praticabili e senza pregiudizio alcuno spero che da un dibattito sincero, onesto e responsabile possano prima o poi emergere. E non vedo luogo, fisico e dell’anima, migliore del Sermig dove ciò possa succedere.

Oggi il pacifismo appare in difficoltà: il lessico e la logica della guerra hanno oscurato la logica e il lessico della pace. Occorre un confronto sincero, onesto e responsabile perché possano prima o poi emergere nuove strade da percorrere 

Questa è la cosa più importante: alimentare il pluralismo informato delle posizioni, costruire un dibattito responsabile anche davanti, anzi soprattutto davanti, all’orrore della guerra 

Vittorio Emanuele Parisi

NP Maggio 2022

Vittorio Emanuele Parsi è docente di Relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano. A sinistra la copertina della sua ultima pubblicazione Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l'ordine liberale (Il Mulino, 2022)

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