Fare la giustizia

Pubblicato il 06-03-2024

di Flaminia Morandi

Fare la giustizia, dice un commento ebraico a un salmo, è molto di più che fare la pace. Fare la giustizia è un continuo discernimento tra bene e male, che non è affatto semplice, perché si tratta di capire in anticipo quale bene porta in realtà a un male e quale male alla fine produce un bene. E in questo discernere per far giustizia è inevitabile pestare i piedi a qualcuno, essere accusati di pignoleria o di durezza. Apparentemente, il contrario della pace. Fare la giustizia è un lavorio incessante tra armonia e discordia che però può mantenere in bilico la pace.

Ma che vuol dire discernere? Da cernita: vagliare, setacciare. Vuol dire distinguere, non far confusione. Normalmente la nostra vita interiore è un caos, un frullato di sentimenti contrapposti, che mettono in moto degli impulsi che dettano i nostri comportamenti. Non sappiamo dove questi impulsi ci portano, perché neanche ci fermiamo a valutare i sentimenti che ce li hanno dettati. Crediamo di agire per nostra volontà; invece siamo agiti e agitati da ciò che sentiamo e che non sappiamo cos’è.

Il problema è tutto qua: che tipo di sentimenti mi abita? Posso capirlo scendendo nella cantina dell’anima: un posto dove ho ficcato un sacco di roba alla rinfusa che nella vita esterna mi disturba. Sono gli aspetti negativi di me, che mi assalgono prima di ogni decisione. Li attribuisco al carattere, ai condizionamenti dell’educazione, della famiglia. Non so cosa fare, mi arrendo e dico: «Sono fatto così». Ma uno che dice così non cammina più. Rinuncia a diventare persona. Cioè a essere libero.

Il primo atto della persona libera invece è: «Fammi vedere cosa c’è in cantina che posso buttar via. Fammi discernere cosa non mi serve, anzi, cosa mi fa male». Tutti sentiamo che ci sono delle cose di noi che non vanno. Invece di dire «Sono fatto così», tengo gli occhi aperti come un gufo che sa vedere nel buio della cantina. Non reprimo il pensiero negativo che mi viene: mi posso reprimere 99 volte, ma alla centesima chi mi passa vicino paga per tutti. E neanche lo rimuovo: ciò che è rimosso, aumenta di forza e la prossima volta mi frega. Faccio una terza cosa: prendo coscienza del sentimento negativo tutte le volte che mi attraversa. Lo guardo in faccia, gli dò il suo nome senza censurarmi (la vergogna è presa di coscienza!) e mi dissocio: Ti riconosco, sentimento, ti chiami (per esempio) invidia e ti dico che non ti voglio. Questo esercizio, che si chiama esame particolare, lo faccio una o due volte al giorno. Un sentimento per volta, cominciando da quello che disturba di più. Cosa succede? Esame dopo esame, quel maledetto sentimento si affloscia. Non è che non lo provo più. Non ha più la stessa presa su di me. E poi succede un’altra cosa: il sentimento negativo diventa il luogo dove non mi nascondo più come ha fatto Adamo. No: mi metto davanti a Dio, con il mio male. Ecco che il luogo del mio blocco diventa il luogo della contrizione e dell’umiltà. Della confidenza con Dio. Dell’incontro con la sua tenerezza che perdona e mi libera dalla paralisi del male.


Flaminia Morandi
NP gennaio 2024

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