Diritti e pace

Pubblicato il 11-02-2024

di Edoardo Greppi

Il 10 dicembre 2023 si è ricordato il 75° anniversario dell’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi, l’aveva adottata con 48 voti a favore, nessun contrario ma otto astensioni (l’Arabia Saudita, il Sudafrica, l’URSS e cinque Stati del blocco sovietico: governi notoriamente in rotta di collisione con la cultura dei diritti umani).

L’ordinamento giuridico della comunità internazionale appare oggi particolarmente attento alla garanzia di un’effettiva tutela dei diritti umani, elemento imprescindibile per la pace. Tuttavia, la strada appare ancora lunga e impervia. Con la Dichiarazione universale, per la prima volta in uno strumento normativo internazionale si affermava che tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti e che gli Stati sono tenuti a riconoscerli e rispettarli.

Tuttavia, la Dichiarazione è stata adottata dall’Assemblea generale, che non ha il potere di decisione (atto normativo vincolante), ma solo quello di raccomandazione (atto non vincolante). Seppure solenne, di alto valore politico e morale, resta quindi uno strumento privo di efficacia obbligatoria. Gli Stati hanno, quindi, adottato trattati multilaterali in materia: i Patti del 16 dicembre 1966 sui diritti civili e politici e sui diritti economici sociali e culturali. A questi trattati hanno fatto seguito altri importanti accordi, quali quelli sul divieto di discriminazione razziale, sul divieto di discriminazione delle donne, sui diritti dell’infanzia, sul divieto di tortura e trattamenti crudeli disumani o degradanti. Questi sono strumenti giuridici che vincolano gli Stati che li hanno ratificati.

Tuttavia, molti Stati hanno compiuto questo rilevante passo senza accettare fino in fondo tutte le conseguenze che questo implicava, soprattutto in tema di rapporto tra internazionalizzazione della tutela dei diritti e limitazione della sfera della domestic jurisdiction, il “dominio riservato” della sovranità nazionale che i governi difendono strenuamente. In altre parole, l’effettivo rispetto dei diritti umani resta essenzialmente affidato agli organi degli Stati. La storia mostra che non solo gli Stati sono piuttosto riluttanti ad adoperarsi per garantire questa tutela effettiva, ma anche che sono spesso essi stessi i responsabili diretti o gli istigatori del compimento delle più gravi violazioni dei diritti della persona umana.

Proprio nella giornata internazionale dei diritti umani, il 10 dicembre 2023, a Oslo si è svolta la cerimonia della consegna del Premio Nobel per la pace all’iraniana Narges Mohammadi. In carcere a Evin, l’orrenda prigione dei detenuti politici del regime, la coraggiosa combattente per l’affermazione dei diritti delle donne nel suo Paese ha trasmesso un messaggio, che è stato letto dai figli diciassettenni Kiana e Ali, rifugiati a Parigi con il padre. Il velo che viene imposto con la violenza alle donne «non è un obbligo religioso né un modello culturale, ma un mezzo di controllo e di sottomissione di tutta la società», scrive questa donna formidabile. Nella cerimonia solenne, alla presenza del re di Norvegia Harald e della regina, si è voluto lasciare simbolicamente la sedia vuota, sulla quale il premio è stato posato. Quella sedia vuota, la grande dignità del marito e dei due figli di Narges Mohammadi sono per tutti noi un monito e una richiesta accorata di aiuto. Taghi Rahmani, marito della Mohamnmadi, ha con sobrietà e dignità ricordato che «in 24 anni di matrimonio abbiamo avuto cinque o sei anni di vita comune », con la moglie oggetto di persecuzione con tredici arresti e cinque condanne. I due figli non vedono la madre da otto anni. Il movimento Donna, Vita, Libertà (scaturito dalle proteste per l’assassinio di Mahsa Amini, che portava il velo in modo ritenuto non conforme alle regole imposte dal barbaro regime di Teheran), cui Narges ha dato voce, ha bisogno del sostegno della società civile, in tutto il mondo. Il grido di questa donna coraggiosa è potente. «Sono una donna mediorientale e vengo da una regione che, nonostante la sua ricca civiltà, è ora intrappolata nella guerra, nel fuoco del terrorismo e nell’estremismo. Sono una donna iraniana, un contributo orgoglioso e onorevole alla civiltà, che attualmente è sotto l’oppressione di un governo misogino e dispotico».

A 75 anni dalla Dichiarazione universale, gli Stati sono chiamati a dare concreta attuazione al nobile principio sul quale poggia l’intera Dichiarazione: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Come ci ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quest’anno l’anniversario cade in «una congiuntura caratterizzata da violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario che offendono la coscienza delle donne e degli uomini del pianeta ». Governi, istituzioni, società civile sono chiamati a dare voce a chi chiede aiuto, e invoca il rispetto di dignità e diritti. Narges Mohammadi ci grida che «scrivo questo messaggio da dietro gli alti muri freddi di una prigione».


Edoardo Greppi
NP gennaio 2024

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