DAL KENYA, uno sguardo sull’Africa / 2

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


[parte prima] [parte seconda]

L’informazione dovrebbe porsi alcune domande per sollevare inquietudini e dubbi sulle cause dei misfatti scavando nella storia passata e più recente. Chiedersi, per esempio perché negli ultimi anni migliaia di contadini in Kenya sono stati costretti a lasciare i loro piccoli appezzamenti di terreno per riversarsi negli slums di Nairobi, una cintura di case in lamiera dove pullulano milioni di miserabili e disperati attorno ai fatiscenti grattacieli del ricco centro.
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Chiedersi su quali mercati vanno a finire le rose coltivate in centinaia di serre spuntate come funghi negli ultimi dieci anni vicino a Nairobi e sugli altopiani in prossimità di Nanyuki. E come mai il Kenya, un tempo capace di sfamare la propria gente, ora è costretto ad importare granoturco, mentre giornalmente voli charters esportano ortaggi all’estero. Nient’altro che la lotta per la sopravvivenza spinge i poveri nelle bidonville e quando la rabbia rompe gli argini si riversa incontrollata lungo le strade! Ora solamente chi ha vissuto in uno slum, o almeno l’abbia visitato una volta, può intuire questa rabbia repressa. Di Soweto e di Korogocho, soprattutto di Kibera che da solo vanta una popolazione equivalente a quella di Torino, complessivamente 3 milioni di persone invisibili su totale di 4 milioni, ammassati sul 5,5 % del territorio della municipalità di Nairobi.

Dice un proverbio ugandese: “Se la nostra casa brucia, è solo perché qualcuno le ha dato fuoco ed ora vi soffia sopra”.
Una cosa dovrebbe essere affermata con forza: è troppo sbrigativo e troppo comodo condannare l’odio “tribale” per giustificare il tutto!!
È solo parzialmente vero, perché non si può capire la storia recente del Kenya solamente attraverso i parametri occidentali di “culture arretrate” o di odi atavici, ma è soprattutto ingiusto perché ci assolve da ogni responsabilità, seppur indiretta. Siamo tutti coinvolti nei fatti del Kenya, e non solo emotivamente!

Lo siamo perché parte di responsabilità è da imputare alle potenze occidentali e quelle che oggi tentano la mediazione tra le parti in conflitto e non solo. Perché da sempre ci siamo sempre interessati del Kenya “utile”, delle località turistiche, degli investimenti redditizi, delle numerose “zone franche” per sfruttare meglio la manodopera per l’esportazione dei fiori, degli ortaggi e dei tessuti.

È la resa dei conti, i tumulti del Kenya sono un atto di accusa indiretto, ma molto efficace, di tutto un continente. Perché, come per il Kenya, anche dell’intero continente africano ci riserviamo la parte “utile”. E i nostri interessi li affidiamo alle multinazionali, gli emissari della globalizzazione neoliberista che saccheggiano e mettono tutto all’asta per il massimo profitto. L’accaparramento delle materie prime e dei minerali strategici del Congo, la competizione per i giacimenti di petrolio in Angola, Sudan, Ciad e offshore nel Golfo di Guinea, le zone franche della Somalia dove smaltiamo i nostri rifiuti tossici, i legnami pregiati della R.D. Congo e della Liberia, i diamanti del Botswana e le cavie umane negli ospedali della Nigeria su cui sperimentare i vaccini da usare poi per i nostri malati.

E infine strozziamo le deboli economie africane con il “dumping”
, o le obblighiamo ad aprirsi alla competizione commerciale asimmetrica con le nostre merci, colture e manufatti. È quello che è successo pochi giorni prima che scoppiassero i tragici fatti in Kenya. L’epilogo delle trattative portate avanti con affanno dagli araldi del commercio della Unione Europea per imporre ai Paesi ACP (Africa, Carabi e Pacifico) gli accordi di partenariato economico (i famigerati EPAS) prima della scadenza del termine, il 31 dicembre 2007. La fragilità del Kenya potrebbe diventare il grimaldello per sfondare le esitazioni e resistenze di alcuni coraggiosi Paesi africani e così portare all’approvazione generale di tali accordi economici, un colpo mortale inferto alle deboli economia africane.

kenya1.jpg All’Africa terra di una nuova colonizzazione corrisponde – come conseguenza - l’Africa delle crisi umanitarie, dei campi profughi, della pandemia dell’Aids e dei bambini orfani, lasciata alla cura di missionari e missionarie, di volontari e ONG, un esercito di “Buoni Samaritani”, la buona coscienza di un mondo disorientato, a cui spetta di curare le ferite causate dalle logiche economiche neoliberiste.

La situazione in Kenya chiama in causa il mondo intero, il senso dei “Live aid”, dei “global funds” e le briciole di aiuti per lo sviluppo devolute dai governi occidentali, quando rimangono invariati gli interessi delle politiche economiche e degli accordi commerciali imposti alle economie dei Paesi Africani. Quando con una mano si intende donare, mentre con l’altra di fatto si continua a derubare e saccheggiare impunemente.

Il Kenya chiede oggi all’Italia vicinanza e una corretta informazione. Inoltre alla galassia di giovani ed adulti che ogni estate invadono le missioni, aiutano i progetti delle ONG e di altre associazioni umanitarie, chiede più giustizia e meno beneficenza, più prevenzione che cura, più coraggio nella profezia che adozioni a distanza! Un cambiamento di mentalità e di stile di vita per riconoscere che ciò che è successo esige un salto di qualità nell’approccio ai problemi dello “sviluppo”. Insieme alla carità c’è bisogno di giustizia, di una forte dose di coraggio per denunciare le cause strutturali delle ingiustizie e della povertà, gli accordi di libero scambio e le politiche economiche basate sul principio di reciprocità con gli Stati africani che invece avrebbero bisogno per risollevarsi di un trattamento preferenziale.

È innegabile che l’Africa e il Kenya devono molto al lavoro dei missionari, uomini e donne intraprendenti che si sono dedicati ad aiutare la gente, a volte fino ad immolare la propria vita per le popolazioni che da sempre avevano amato. Per onorare la loro memoria, e alla luce dei fatti successi in Kenya oggi, noi missionari non possiamo non chiederci fino a che punto il messaggio cristiano è penetrato in profondità, dopo decenni di evangelizzazione, valorizzando e purificando culture e stili di vita, fino a che punto i nostri progetti di sviluppo hanno mirato al cuore della convivenza tra le popolazioni, e fino a che punto siamo stati capaci di spegnere le rivalità, dopo aver visto in Kenya, l’odio, la vendetta e gli assassini prevalere sul perdono e la pace.

Per questo è urgente una verifica seria, una rielaborazione delle priorità pastorali, della tipologia e della finalità dei progetti di “sviluppo”.
Bisogna tornare al Vangelo, nella sua essenza e, con urgenza, come è successo in Sud Africa e in Rwanda, inserirci nell’iceberg umano del Kenya, con la gente osare una riconversione pastorale che inevitabilmente dovrà avere a cuore la testimonianza e la formazione alla pace e nonviolenza, alla riconciliazione e al perdono. Se vogliamo evitare che nel prossimo futuro l’ombra lunga dei massacri del 1994 in Rwanda investa anche il Kenya!

Non dobbiamo demordere, i tempi sono difficili, preghiamo e speriamo affinché il Kenya possa risollevare il capo e camminare verso un avvenire di pace ancorato alla giustizia e al perdono. In Italia e in Europa per questo resta ancora molto da fare, se vogliamo aiutare veramente il Kenya e l’Africa prima che affondi nell’abisso!

p. Antonio Rovelli
missionario della Consolata

Vedi anche:
KENYA: violenze post-elettorali, di Kizito Sesana

 

 

 

 

 

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