Missione: come assumerla? (2/2)

Pubblicato il 09-10-2016

di Giuseppe Pollano

Icona copta della Trasfigurazionedi Giuseppe Pollano – A differenza della pura conoscenza intellettuale (es. so che Dio c'è), la contemplazione non stampa solo una idea nella nostra mente, produce sentimenti di ammirazione, consenso, convinzione, si radica nella memoria del cuore e stimola alla comunicazione.
Di ammirazione: guardi, rimani incantato, ammiri.
Di consenso: ti viene voglia di andare incontro a quello che ammiri perché ti attira, ne capisci il valore, ti senti superato da questa bellezza, e allora nasce nel cuore un sì, consenti: “come sei bello, come sei buono, come sei grande”. Questa non è più soltanto una conoscenza intellettuale.
Di convinzione: ci vien da dire di aver incontrato la persona indimenticabile, impareggiabile: “non c’è nessuno come te”. Queste sono anche frasi da innamorati, il che significa che non ci troviamo dinanzi ad un meccanismo strano, trascendente, esoterico, riservato a qualcuno, ma allo stesso meccanismo che si instaura tra persone che si amano, che è però portato ad un livello di sublimità, perché arriva all’oggetto supremo dell’amore.
Se sono ammirato, se sono convinto, se aderisco a te con tutto il cuore, allora mi diventi indimenticabile. La contemplazione infatti rende Gesù indimenticabile, qualunque cosa si faccia. È la memoria del cuore, molto più tenace della memoria della mente.
E perciò viene da dirlo perché quando si è incontrato un personaggio che ci ha presi, nel senso più nobile della parola, non ce lo teniamo come un segreto tutto per noi.


Contemplatori e contemplativi

Anche nella vita sperimentiamo questi sentimenti che caratterizzano la contemplazione, ma a livello di fede interviene un aiuto in più: “sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3). Questo è molto bello a sapersi e consolante, non siamo noi che dobbiamo lavorarci su, è lo Spirito che ci illumina su Gesù. Lo Spirito è generoso con i suoi doni, soprattutto l’intelletto che ci fa capire i misteri di Dio, che ci fanno rimanere con Gesù. Attraverso una parola del vangelo, una scena, una icona, qualcosa si è acceso e ci ha trattenuti con Gesù, era lo Spirito che ci aveva reso attenti. Non era un guardare qualsiasi, era un lasciare che il cuore fosse preso da lui.
Contemplata la bellezza e la bontà del disegno di Dio, come gli apostoli siamo in grado di dire lietamente che “non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). Qui comincia lo spirito missionario. Anche se nessuno mi manda, non posso più stare zitto.

Così il primo impegno, per assumere la missione, è di guardare me stesso: devo diventare un contemplatore o, addirittura, un contemplativo. Sono due sostantivi di diversa portata. Il contemplatore è colui che almeno sa contemplare il proprio Dio quando si mette in preghiera, quando legge la Parola, quando l’ascolta, quando sta in silenzio, quando partecipa all’eucaristia, quando pensa a Gesù perché in questi momenti sente che fa un’esperienza forte, è preso, è come guardasse la faccia di una persona amata, c’è reciprocità. Ma se poi sono amante di questo incontro, se lo faccio diventare l’incontro che mi domina, divento contemplativo, perché diventa il mio modo preferito di vivere.
Essere contemplatori – capaci di contemplare – è un dovere per tutti, essere contemplativi – amanti della contemplazione – è una possibilità che sale da questo dovere.
La vera personalità cristiana nasce dal di dentro perché è dentro di noi che incomincia a nascere la simpatia per Dio, non dai gesti o dalle moltissime cose che facciamo. Siamo in una cultura che fa di tutto per impedire la contemplazione o, almeno, non la favorisce. L’azione frenetica e vorticosa in cui tutti siamo o poco o tanto presi, non necessariamente cattiva ma semplicemente terrena, rischia di prenderci, di portarci via dalla contemplazione di Dio.


Le bestie in agguato per dis-trarci

Teniamo presente che dentro di noi ci sono quattro bestie che ci stringono nell’egocentrismo e rendono difficile essere contemplatori o contemplativi.

La concupiscenza degli occhi. Gli occhi vogliono guardare e vedere tutto, ma non sono fatti per guardare e vedere il tutto. Chi crede che il mondo finisca là dove arrivano a vedere gli occhi, che finisca con l’orizzonte, vive di ciò che vede e di ciò che guarda! La concupiscenza degli occhi è una sottile insidia che ci può conquistare e trarre continuamente fuori, dis-trarre, perché lo sguardo provoca degli effetti emotivi, innescando un meccanismo che ci mette in movimento. Le emozioni ci muovono, interpellano la volontà.
Siamo padroni dei nostri occhi? Gli occhi possono essere utilizzati per vedere tutto, quindi possono investire anche le questioni legate alla castità, ma non solo. Il mercato del mondo non li attira, non li avvolge? Non c’è nulla di male entrare in un supermercato, ma capita spesso che non ci esci senza aver comperato qualche cosa che neanche pensavi, perché “la bestia” ti aveva fermato davanti a qualche prodotto. Viviamo questa realtà, non ce ne accorgiamo neppure, ma poi quando ci mettiamo a pregare ci troviamo un po’ estraniati: che fatica dimenticare quel modello di smartphone mentre ho il vangelo aperto in mano!

L’amore del piacere. Nessun piacere è intrinsecamente cattivo, ma siamo noi che dobbiamo essere misurati, perché il piacere trattiene in sé finché dura. Se viviamo di piccoli piaceri uno dietro all’altro o desideriamo ciò che non abbiamo, finiamo di essere, ancora una volta, tirati fuori, non abbiamo più quella possibilità di guardare il mistero di Dio perché il piacere è molto pratico, è molto fisico, è molto immediato, è molto sensibile. Ci vuole sempre la capacità di non farsi prendere, di non esserne padroneggiati, anche nelle più piccole cose. E allora: siamo padroni del piacere che si può godere sotto qualunque aspetto?

L’avidità di avere. Un cristiano dove trova la possibilità di contemplare Dio se dal momento della sveglia e per tutta la giornata il suo vangelo è tenersi continuamente informato sulle quotazioni della borsa e tutta la giornata si svolge di conseguenza? Non è soltanto questione di aver bisogno di denaro, questo è umano, ma è pensare all’avere anche quando non ce n'è il bisogno. Siamo condizionati dall’idolo dell’avere.

La superbia della vita (cfr 1 Gv). Chi è molto soddisfatto di sé, chi si specchia in se stesso, come fa a contemplare Gesù? Deve contemplare continuamente se stesso, la faccia, il naso, gli occhi, le rughe, l’intelligenza. Vive di se stesso, anche se frequenta l’eucaristia domenicale. Contro questa insidia, dobbiamo riconoscerci nel bene che Dio ci dà e in quello che sappiamo fare, ma anche, e soprattutto, nel nostro bisogno di conversione.

Se non si sa contemplare, se non si trova il tempo di stare con Gesù è anche perché si è dis-tratti dalle quattro bestie che sono presenti in noi. Saremo missionari se e nella misura in cui contempliamo Gesù.


Lo sguardo fisso su Gesù

Giovanni Paolo II sul finire della vita ci ha lasciato, quasi come eredità, il richiamo alla lettera agli Ebrei. Ha parlato volentieri del fatto che bisogna fissare bene lo sguardo in Gesù. Cosa c’è di più semplice del fissare? “Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,1-2): la lettera agli Ebrei ci dice che più guardiamo Gesù, più cresce la nostra fede. “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità da parte dei peccatori, perché non vi stanchiate perendovi d'animo” (Eb 12,3): l’insistenza a pensare, a fissare Gesù, ci salva dalla distrazione.
Il Signore ha bisogno di missionari. Ancora Giovanni Paolo II iniziando quell’enciclica diceva che siamo ancora all’inizio della missione. Numericamente è vero, ma era preoccupato che nel popolo di Dio lo spirito missionario si era attenuato un po’ nel relativismo, nel tutto va bene, tanto ci si salva lo stesso. Noi non accettiamo queste tesi, certamente siamo amici di tutti, tutti credono in Dio, siamo molto ampi di cuore, ma non rinunciamo a dire Gesù Cristo, perché di Salvatore ce n’è uno solo che è lui.

Giuseppe Pollano
tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore

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