Una porta aperta

Pubblicato il 14-11-2017

di Ernesto Olivero

di Ernesto Olivero - Non dobbiamo idealizzare le persone, ma incontrarle nell’intimo.
Quando ripercorro le tappe della nostra storia, ripenso con tenerezza agli inizi. Io e miei amici eravamo giovanissimi, inesperti, ma con ideali grandi nel cuore. Il Sermig era ancora “bambino”, non ci aveva ancora comunicato la bellezza che sarebbe emersa lentamente ma decisamente. Mai avrei immaginato di vivere una storia così, mai avrei immaginato di incontrare la bellezza della vita, ma anche tragedie infinite.

All’inizio di tutto, ricordo solo che feci un patto con Dio, gli dissi che sarei stato disponibile per tutto, tranne che per tre cose: prendere l’aereo, parlare in pubblico e incontrare di persona i poveri. Erano limiti del mio carattere: avevo paura di volare, mi agitavo di fronte alle folle, ma soprattutto ero e sono un timido. La vita mi ha portato a fare tutte e tre queste cose, la prova che i limiti possono allargarsi se lasciamo operare Dio. L’incontro a tu per tu con chi è in difficoltà però ha cambiato il mio modo di pensare. Mi sono reso conto che a volte, chi ha bisogno è insopportabile, nella stessa misura in cui può esserlo chi sta bene e non ha problemi.

Ho capito da subito che se vogliamo essere autentici dobbiamo smetterla di idealizzare le persone. Ammettiamolo, nella nostra fantasia, il povero è un giocattolo da accudire di tanto in tanto; in qualche momento emotivo diciamo di voler spendere la vita per lui, perché pensiamo che non è giusto essere poveri. Ma quando tu lo conosci nella realtà, ti accorgi che a volte il povero ti disturba, è scostante, puzza, è maleducato; ti accorgi che, anche lui come te, pretende di mangiare ogni giorno, di dormire la notte in un letto, di vestire come te, di mandare i suoi figli a scuola. Vuole essere proprio una persona come te, come noi… E questo povero è diverso da quello dei nostri sogni!

Chi vuole incontrare i poveri, quindi, deve accoglierli nell’intimo, ma soprattutto accogliere l’imprevisto. Posso dire con serenità che non esiste “maestro” migliore del campanello, che può suonare in ogni ora del giorno e della notte, che può farti incontrare continuamente situazioni e persone impensabili. Com’è possibile però entrare in questo stile, essere pronti in modo equilibrato a sopportare anche la sconfitta, il fallimento, l’ingratitudine di tante persone? Nella nostra esperienza ci è venuta incontro la spiritualità della Presenza, ovvero la consapevolezza di sentirsi sempre e comunque alla presenza di Dio, qualunque cosa facessimo e qualunque situazione vivessimo.

Ma cosa vuol dire in concreto? Lo capii definitivamente ancora una volta nell’incontro con un povero. Si presentò di notte all’Arsenale, con una carica incredibile di violenza, pretendendo la luna. A un certo punto dissi a me stesso: “Se non stessi pregando, chiamerei la polizia”. Quella notte capii concretamente cosa fosse la spiritualità della Presenza: quell’incontro non finì con l’intervento della polizia. Finì con un dialogo in cui la pretesa della luna incontrò un ascolto vero, capace di mettersi nei panni di chi non sapeva dove andare a dormire e aveva visto una targa: “Arsenale della Pace, Casa della Speranza”. E quell’uomo che voleva la luna, perché da sotto i ponti o da un prato poteva vedere solo la luna, quella notte non trovò un cartello con un orario, ma una porta aperta.

Ernesto Olivero
EDITORIALE
NUOVO PROGETTO Novembre 2017

 

 

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