Pomeriggio di speranza

Pubblicato il 17-05-2013

di Guido Morganti

È il 13 maggio 1973, giusto 40anni fa. I giovani vengono coinvolti dal Sermig con l'obiettivo di costruire insieme pace, speranza, giustizia. L'inizio di un cammino che oggi è confluito nel Mondiale dei Giovani.

“Quando Ernesto Olivero venne a propormi di chiamare i giovani a un incontro che fosse un canto di speranza e un invito alla speranza – e proponeva per la manifestazione il palazzetto dello sport di Torino – non mi trovò entusiasta. È vero, da poco i giovani chiamati dal Sermig avevano gremito il palazzetto accogliendo ed ascoltando con vibrante entusiasmo dom Helder Camara, ma era prudente voler ripetere a breve distanza una iniziativa del genere senza correre il rischio di un insuccesso?”. Dopo queste perplessità iniziali, il card. di Torino padre Michele Pellegrino appoggiò con forza la proposta del “Pomeriggio di speranza” e il 13 maggio 1973 il palazzetto dello sport era strapieno di giovani che condividevano il loro entusiasmo e il loro impegno per camminare insieme verso più solidarietà, più giustizia, più pace. Ascoltarono con partecipazione le parole di padre Pellegrino, del card. Jozef Suenens, di fratel Carlo Carretto e di Ernesto Olivero, che era la prima volta che parlava in pubblico. Ascolto, preghiera, proposte, impegno: un pomeriggio che si sarebbe dilatato nel tempo. Padre Pellegrino nel suo intervento che partiva dall'episodio di Emmaus raccontato da Luca nel suo vangelo (Lc 24,13-35), aveva legato indissolubilmente la speranza e la comunione. Eccone alcune frasi.

Il breve viaggio di Cleopa e del suo compagno è un viaggio verso la speranza. Speravano, mentre Gesù era vivo; morto lui, la speranza li aveva abbandonati. Essa riaffiora mentre camminano e conversano col viandante sconosciuto. Quando quel tale spezza il pane e lo riconoscono, risorto e vivo, il dubbio e la tristezza lasciano il luogo a una speranza, a una gioia che essi si affrettano a comunicare ai fratelli. Vogliamo richiamare qualche frase del racconto? “Noi speravamo”. “Resta con noi”. “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”. “Riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane”.

Il racconto di Luca è al plurale. La speranza, per sostenersi, per fortificarsi, ha bisogno di comunione. Se no, degenera facilmente in ricerca egoistica di conforto, di soddisfazione intimistica. Comunicandosi, la speranza si consolida, si dilata. Perché voi giovani non volete star soli? Cercate l'apertura agli altri, il gruppo, lo stare insieme? Il sentire che altri cuori battono all'unisono col vostro, che i vostri ideali sono gli ideali dei vostri fratelli, vi dà forza ed entusiasmo. Perché la speranza tende alla comunione, la comunione è sostegno della speranza.

Finché rimangono loro due, Cleopa e l'altro innominato discepolo, si sentono fasciati di tristezza e non hanno speranza, quasi come i pagani di cui parlerà Paolo. Sono soli anche se ripensano agli amici che hanno lasciato poco prima in Gerusalemme, dove certe brave donne raccontano strane storie di angeli che si sono fatti vedere.

La loro tristezza sarà a poco a poco diradata, sarà colmato il vuoto della loro solitudine nel colloquio con l'inaspettato e sconosciuto compagno di viaggio. Che vuoi dire? Che non basta, per vivere nella speranza, trovarci fra noi, piccole e fragili creature umane, esposte ai rischi di tutte le delusioni. La nostra speranza si fonda in Cristo. A una condizione: che crediamo che egli è veramente risorto, è vivo, è con noi. È lui che ci garantisce, con la speranza che nasce dal Vangelo (Col 1,23), contro il fallimento che incombe, più o meno consapevolmente, sull'animo di tanti giovani come un'oscura minaccia quando la vita è ridotta a ricerca di guadagno, di carriera, di piacere. Ma perché questo avvenga, è necessario che Cristo l'accettiamo, nella fede, come compagno del nostro cammino. Egli non può essere come l'aviatore considera il paracadute, “che si tiene sempre a portata di mano per il caso se ne avesse bisogno, sperando di non doversene mai servire” [C. Lewis]. I cristiani che la pensano così possono davvero divenire antipatici, poveri spegnitori, anziché apportatori di speranza. Ma questa è una caricatura del cristianesimo e della Chiesa. “L'hanno riconosciuto nello spezzare il pane”. Non è possibile comunicare veramente con Cristo, accoglierlo nell'eucaristia, come portatore di speranza e di vita, se non c'è comunione sincera, di amore e di opere, con i fratelli. Il nostro incontro con Cristo nell'eucaristia, ammonisce ancora Agostino, manca al suo scopo se non lo riconosciamo nel fratello bisognoso. “Ero forestiero e mi avete accolto”: proprio come fecero con quel forestiero i due che lo “costrinsero” a entrare con loro nella locanda per la cena.

I cristiani irradiano speranza con la testimonianza di fede, senza dubbio; ma proprio questa testimonianza è fasulla se non si traduce nel dono di noi stessi ai fratelli, nella partecipazione al dolore di chi soffre, nell'avvicinamento di chi o è solo o emarginato, nella solidarietà con chi lotta per la giustizia e perché sia riconosciuta la dignità dell'uomo. Se noi vecchi dobbiamo resistere alla tentazione di ripiegarci su noi stessi, abbandonandoci a sterili nostalgie, voi giovani siete protesi verso il futuro che dovete costruire con le vostre mani, con il vostro cuore, con la vostra fede. Ricordando sempre che l'uomo non raggiunge la sua pienezza umana e definitiva nell'azione sociale e politica; che la Chiesa, proprio per recare il suo contributo all'avvento di un futuro più degno dell'uomo, deve proclamare con sempre maggior insistenza e vigore il regno di Dio.

di Guido Morganti

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